Europa, Europa

Credo che in un momento difficile come quello che l’Europa comunitaria sta attraversando, immersa com’è in una crisi dalla quale sembra non riesca a uscire, la domanda: “Perché l’Europa?” non nasca soltanto presso i soliti “euroscettici”, ma anche nella mente di coloro che nell’Europa, nella sua unità materiale e spirituale, hanno creduto e credono ancora, nonostante la vedano scontrarsi con difficoltà che appaiono insuperabili, che mettono a rischio la sua non proprio solidissima integrità. E questo al punto che viene da chiedersi se erano validi, e soprattutto se sono stati raggiunti, i fini che, dopo la seconda guerra mondiale, hanno spinto alcuni Stati dell’Europa occidentale verso quelle forme di integrazione che tutti conosciamo, dalla modesta “Comunità del carbone e dell’acciaio” alle attuali istituzioni economiche e politiche.
Che queste ultime attraversino oggi una crisi che induce parte notevole della nostra opinione pubblica, e alcuni movimenti politici, a vedere nell’Europa un ostacolo allo sviluppo del nostro paese, che considerano, come usa dire, “commissariato” dall’Europa, che vedono al suo interno la presenza di discutibili egemonie, è una convinzione largamente diffusa e non priva di qualche ragione. Ma questo non deve impedirci di comprendere che la dissoluzione della Comunità Europea sarebbe una catastrofe di cui è difficile valutare la portata, e che comunque può essere evitata avviando alcune importanti riforme: cosa che non deve certo preoccupare perché, come scriveva nel 1796, nelle sue celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese, uno dei più noti rappresentanti del pensiero conservatore, per non dire reazionario, Edmund Burke, «uno Stato privo di ogni possibilità di mutamento non ha neanche modo di conservarsi».
Ma perché l’Europa, nata soprattutto come comunanza economica, per garantire un dignitoso – e anche qualcosa di più – livello di vita ai propri concittadini, si è ritrovata, nonostante i successi, tra i quali la contestata moneta unica, in crisi proprio su questo terreno, ove invece ha raggiunto risultati eccellenti in altri ambiti non esplicitamente indicati tra i suoi fini, anche se impliciti nella sua stessa ragion d’essere, nel suo stesso costituirsi?
Prima di tentare di rispondere a questa domanda, può essere opportuno ricordare che l’impulso alla nascita dell’Europa ha radici lontane; un impulso diverso da quello che negli anni Cinquanta del secolo scorso doveva portare alla sua costituzione, voluta e progettata come comunità economica. Il 7 e 10 maggio del 1935, in uno dei periodi più tristi della storia d’Europa, uno dei più grandi filosofi del Novecento, Edmund Husserl, teneva a Vienna due conversazioni dal titolo La crisi dell’umanità europea e la filosofia. Verso la fine della prima diceva: «L’Europa non è […] un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda soltanto attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensì uno spirito nuovo che deriva dalla filosofia e dalle scienze particolari che rientrano in essa, lo spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea tutta l’umanità e crea nuovi e infiniti ideali». E quasi presago della tragedia alla quale l’Europa andava incontro, aggiungeva: «La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa nello spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo».
Lascio da parte il nucleo teoretico di queste parole, l’idea che la cultura che aveva dato vita all’Europa era stata opera di «un paio di greci stravaganti», i quali, scriveva ancora Husserl, avevano dato «l’avvio a una trasformazione dell’esistenza umana e di tutta la sua vita culturale». Un fenomeno questo – la nascita della filosofia, la trasformazione del mito in scienza –, che, a dire di Claude Lévi-Strauss, si sarebbe verificato in un solo momento e in solo luogo nella storia, «alle frontiere del pensiero greco, là dove la mitologia fa posto a una filosofia che emerge come condizione preliminare della riflessione scientifica». Una “riflessione” che ha finito con l’essere la caratteristica della civiltà occidentale, quella che ha creato idealmente l’Europa condizionandone la comune civiltà, sopra e oltre la sua storia politica.
Non ho certo indugiato a caso su queste ultime affermazioni: perché se l’Europa o, meglio, il continente europeo, ha visto per secoli gli Stati che lo abitavano in perenne conflitto tra di loro, è stato sempre unificato dalla sua cultura, dalla sua filosofia in particolare, che ne ha fatto una grande “comunanza ideale”, superando ogni barriera, ogni confine politico e linguistico tra i suoi popoli, diventando, per così dire, il loro super-ego, la loro coscienza comune, senza per questo riuscire, e forse neppure tentare veramente di superare le profonde divisioni politiche tra i diversi Stati, respingendo anzi ogni tentativo di unificazione.
Ascoltiamo a questo proposito le parole di un noto, e autorevole, storico inglese, Herbert Albert Laurens Fischer, che si leggono nella sua Storia d’Europa, apparsa nello stesso anno, il 1935, della conferenza di Husserl: «I grandi tentativi di imporre un sistema comune agli energici e volontari popoli europei», scriveva dunque Fischer, «fallirono uno dopo l’altro. L’impero romano non riuscì a soggiogare i germani. La Chiesa cristiana, la più possente forza unificatrice dei tempi storici fu prima fratturata dal disaccordo tra greci e latini, poi dalla rivolta del nord protestante. Né i sistemi filosofici seppero meglio conquistare l’universale consenso. L’Europa rifiutò di essere unificata dal piano egualitario della rivoluzione francese: allo stesso modo respinge ora il ferreo programma del comunismo russo. E tuttavia, fin dal primo secolo della nostra èra, il sogno dell’unità aleggiò sulla scena dominando l’immaginazione di statisti e di popoli. E nulla importa per il futuro benessere del mondo quanto definire il sistema in cui meglio possano combinarsi le nazioni d’Europa, le cui differenze son tante e così radicate, con un’organizzazione stabile, intesa a perseguire i loro interessi comuni e a evitare ogni lotta».
Quanto abbiamo ascoltato, serve a ricordare che i tentativi di unificazione dell’Europa hanno sempre avuto, da Cesare a Napoleone, il carattere di una conquista militare; ed è per questo che sono falliti. Ma quando è nata l’idea di Europa come possibile, forse necessaria, struttura politica sovrastante le singole nazioni? E quando, si è chiesto Federico Chabod nel 1961, nella sua Storia dell’idea di Europa, «dalla fede in alcuni valori supremi, morale e spirituali, che sono creazione della nostra civiltà europea, è nato […] l’impulso a ripercorrere storicamente l’iter di questa civiltà, e, anzitutto, a rispondere al quesito, come e quando i nostri avi [hanno] acquistato coscienza di essere europei»? E quando, si è chiesto ancora, «gli uomini abitanti in terra europea cominciarono a pensare se stessi e con sé la propria terra, come un qualcosa di essenzialmente diverso, per costumi, sentimenti pensieri, dagli uomini abitanti in altre terre al di là del Mediterraneo, sulla costa africana […], o al di là dell’Egeo e del Mar Nero in terra asiatica?». E ha risposto che se «delle basi, diremo di fatto, della civiltà europea si può parlare sin dal mondo antico e ancor più dal trionfo del cristianesimo e della civiltà cristiana, e cioè dal Medioevo, di una precisa e chiara coscienza europea non si può discorrere se non nell’età moderna».
Ma tornando adesso alla “filosofia” che Husserl per primo ha introdotto con forza nel discorso sull’Europa, quando, dopo poco meno di vent’anni dalle sue conferenze, dopo la più terribile e devastante guerra che i popoli europei avessero mai vissuto, vennero gettate per la prima volta le basi per una futura unità del Continente, o, almeno della sua parte occidentale, oggetto privilegiato delle discussioni che dovevano portare a quella unità furono soprattutto, se non soltanto, di natura economica. Nel 1951 venne creata, come prima ho ricordato, la “Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio”, mentre nel 1958 vide la luce la Comunità Economica Europea, contrassegnata, appunto, da accordi economici, con la convinzione che quelli politico-culturali non potevano non seguire.
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Il processo che portò alla costruzione dell’Europa di oggi, è sotto il tiro non soltanto di economisti e politici, ma anche di grandi intellettuali, assai critici nei suoi confronti, non perché ne vorrebbero lo scioglimento, ma perché vorrebbero che perseguisse una strada diversa, altri traguardi che non quelli dell’unità economica e monetaria, peraltro piuttosto malriuscite. Tra questi vorrei qui ricordare un elegante e raffinato scrittore e poeta tedesco, Hans Magnus Enzensberger, il quale ha pubblicato un volumetto apparso l’anno scorso nel nostro paese presso Einaudi, con il titolo Il mostro buono di Bruxelles, dove per “mostro buono” viene intesa la burocrazia europea, che cerca – mala-mente come ogni burocrazia – di unifi-care l’Europa non ricreando – e come potrebbe una burocrazia? – un rinnovato spirito unitario, ma tentando di superare le diversità legislative tra i singoli Stati dell’Unione con leggi e regolamenti – Enzensberger ne ricorda alcuni a dir poco paradossali, come la promulgazione di «regole concernenti le protesi dentarie», o l’obbligo di riportare «sulla confezione se un formaggio è stagionato in salamoia»; regolamenti, dicevo, che certo non servono allo scopo.
Questo non significa tuttavia che lo scrittore tedesco liquidi come inutile, se non addirittura dannosa, l’attuale Unione Europea. In capite libri, ad esempio, segnala che «nella storia del nostro continente sono pochi i decenni nei quali abbia regnato la pace. Dal 1945, fra gli stati che fanno parte dell’Unione Europea non si è più avuto un solo conflitto armato. Quasi l’intera vita di un uomo senza guerra! Un’anomalia della quale il nostro continente ha di che essere orgoglioso». E non solo: oggi, per esempio «chi possiede un passaporto della maggioranza dei paesi membri, può risiedere dove vuole senza fare code negli Uffici Stranieri per ottenere un permesso di soggiorno o di lavoro»; e questo porta Enzensberger alla conclusione che «il processo di unificazione dell’Europa ha cambiato in meglio la nostra vita quotidiana. Per molto tempo esso è stato economicamente così positivo che ancora oggi aspiranti di ogni genere premono alle sue porte per entrare».
Detto questo, però, dopo avere scritto che siamo certamente davanti a «buone opere delle quali c’è da esser fieri», si è chiesto: «Dovremmo dunque congratu-larci con i guardiani di Bruxelles per i bei risultati che, a dispetto dell’ ”interesse nazionale” gelosamente tutelato, hanno ottenuto in molti settori?»; e ha risposto che «non è assolutamente necessario; volentieri, infatti, le autorità europee ci risparmiano questa fatica».
Ma dove la mano di Enzensberger diventa davvero pesante è quando affronta la politica culturale dell’Unione Europea. E anche qui gli lascio diretta-mente la parola: «Pur con tutto l’immancabile immischiarsi nella nostra vita quotidiana, un unico campo non è stato ancora dissodato. Ed è la cultura. L’Unione non ci ha mai tenuto molto. Dà fastidio se non altro per il fatto di essere difficilmente omologabile». Una indiffe-renza che tuttavia presenta un aspetto senz’altro positivo: «Meno le autorità di Bruxelles», scrive, «si interessano alla cultura, meglio è. A quanti, siano essi produttori o pubblico, sta a cuore questo aspetto dell’umana esistenza, tale menefreghismo risparmia le arroganti vessazioni con cui devono combattere altre attività. Ci mancherebbero davvero anche le direttive su come in Europa sia consentito, dipingere, danzare e scrivere».
Che la cultura – e non soltanto la filosofia – sia, come del resto ho detto più volte, il più forte elemento unificante dei popoli europei, è un fatto certo: Flaubert e Tolstoi si leggono a Parigi e a San Pietroburgo come a Roma; Mozart si ascolta a Vienna come a Palermo; a vedere una mostra di Goya ci si precipita sia a Madrid che a Milano. Ma la cultura nasce, e circola, spontaneamente. Il “mostro” che cercasse di organizzarla diventerebbe – come in diverse occasioni è accaduto – subito “cattivo”. La cultura ci dice soltanto che tra i popoli europei vi sono valori e ideali comuni, che molto possono contribuire per giungere a una unità “politica”, o più ancora, etico-politica.
Di questa “unità” hanno discusso – con toni e procedimenti diversi – due grandi intellettuali italiani, Giuliano Amato e Ernesto Galli della Loggia in un volume apparso non molto tempo addietro per Il Mulino, con il titolo Europa perduta?, un volume che merita certamente qualche attenzione. Come Enzensberger, né Amato, né Galli della Loggia sono antieuropeisti. Ciò che hanno in comune – e non sono i soli – è la certezza che le istituzioni europee siano caratterizzate da una forte carenza di democrazia, che è invece ormai patrimonio comune di tutti i paesi che fanno parte dell’Unione, anzi condicio sine qua non per farne parte. Nella prefazione hanno scritto: «Entrambi gli autori […] pensano non solo che il progetto europeo vada proseguito (euro incluso per ciò che riguarda l’Italia), ma che ciò vada fatto mettendosi su una strada diversa da quella del passato. Con molta più attenzione al vario radicamento storico dei popoli, alle loro identità culturali e alle loro esperienze nazionali; ma soprattutto con più democrazia, più poteri a organi responsabili davanti agli elettori, e più politica. Cioè, alla fine, più spazio all’iniziativa e al coraggio di chi è chiamato a dirigere, più spazio alle grandi speranze di cui abbiamo più che mai bisogno».
Recensendo poco dopo la sua comparsa questo volume sul “Corriere della Sera”, Antonio Carioti ha scritto che «la convergenza tra i due autori […], è tutto sommato, solo apparente». Amato infatti, ha proseguito, «vuole più politica per rafforzare un processo già in corso, correggerne le storture, pilotarne dall’alto il cammino verso l’approdo federale», ove invece «la politica invocata da Galli della Loggia ha il volto del “potere costituente”, della decisione popolare sovrana che crea una cesura col passato e inaugura una fase del tutto nuova». Nonostante però le diversità dei progetti – federalista il primo, unitario il secondo – essi hanno in comune qualcosa di molto profondo, e a mio parere, decisivo.
Giuliano Amato appare senz’altro fiducioso nella ripresa dell’Europa; una ripresa le cui condizioni non possono essere soltanto le soluzioni tecniche di cui tanto si parla, «si tratti di unione bancaria, di capacità fiscale europea, di elezione più o meno diretta di questo o quello»; soluzioni del tutto inutili, se non accompagnate da «sentimenti collettivi, speranze, timori e aspettative, su cui bisogna aver lavorato perché la razionalità riesca a essere condivisa, insieme ai risultati che ne dovrebbero venire».
Pur convenendo su questo, mi sembra difficile dire che cosa – mentre la sfiducia nei suoi confronti cresce a vista d’occhio – potrebbe fare rinascere quei sentimenti e valori da cui è nata la Comunità Europea, e che discendevano da quegli eventi traumatici che sono stati il nazi-fascismo, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, oggi tutti così lontani da noi; e di questo sembra senz’altro consapevole Galli della Loggia, il quale – più o meno alla maniera di Enzensberger con il quale concorda su diversi punti – vede l’Europa inaridita dalle sue regole, dalla sua burocrazia, dall’assenza di una “politica” seria, «ispirata alla democrazia, animata dal suo genio, fiduciosa nelle sue virtù e nelle sue risorse»; e accanto alla democrazia «i diritti certamente, e il welfare, e la libertà, e l’accordo piuttosto che il contrasto, la moderazione invece della prepotenza». Ma di tutto questo, conclude non senza amarezza, nulla è venuto da Bruxelles: «Non ci sono mai arrivate né la sovranità popolare, né una visione. Né la democrazia né la politica. Questo dunque è lo scoglio da superare per disincagliarci dalle secche e riprendere la rotta per l’alto mare aperto. Che non sappiamo ancora a quale Europa ci porterà: sappiamo solo che questa, e nessun altra, sarà la nostra Europa».
A questo il noto politologo aggiunge dell’altro: per esempio che senso, che valore possono avere delle elezioni «nelle quali candidati ed elettori – cioè governanti e gover-nati – non siano in grado di comunicare tra loro, cioè non parlino la medesima lingua?». E giunge a negare validità pure alla tesi con la quale Enzensberger inau-gurava i suoi scarsi encomia della Comu-nità Europea: la “leg-genda”, così la chia-ma, che abbiamo sentito tante volte ripetere, «secondo la quale l’esistenza dell’Europa per deludente che sia, potrebbe vantare se non altro un grande obiettivo storico raggiunto: avere impedito con la sua sola presenza la guerra nel continente». Tesi che Galli della Loggia considera una semplice menzogna, ritenendo invece vero il contrario, dal momento che «è stata una tale pace ad avere reso possibile l’Europa», perché «dal 1945 in avanti il nostro continente non ha conosciuto conflitti […] per la semplice ragione che gli unici veri attori autorizzati a scate-narne uno, non erano gli Stati Europei ma i loro due padroni effettivi, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica […] sempre decisi, fortunatamente, a non arrivare a tanto».
In tutto quanto si legge in questi due libri, c’è certamente qualcosa, anzi molto, di vero. E proprio per questo non mi sembra il caso di avanzare qui ipotesi e previsioni: la storia riserva molte sorprese; e talora piuttosto dure. Ma una considerazione vorrei permettermela, muovendo da ciò che è più facile osservare e giudicare, sarebbe a dire la politica del nostro paese. Dalla quale mi sembra difficile possa venire una spinta al rinnovamento dell’Unione Europea: certamente non verrà fino a quando la nostra (mediocre) classe dirigente utilizzerà le decisioni del ”mostro (non tanto) buono” di Bruxelles, ai fini della politica interna, accogliendole o respin-gendole sulla base della convenienza immediata, se porta o fa perdere con-sensi al proprio partito. E del resto: tranne lo slogan, di cui nessuno ha portato ragioni con-vincenti, “euro sì euro no”, di che cosa si è parlato nella campagna elettorale per le ultime elezioni europee, se non dei fatti di casa nostra?
Ma non vorrei chiudere con parole di sfiducia. Ho ricordato all’inizio Edmund Husserl; e con altre sue parole – con il messaggio, starei per dire, che questo grande filosofo “europeo” ha lasciato alla sua “patria” – vorrei concludere. Le parole sono queste: «Il maggior pericolo del’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, in quanto “buoni europei” in quella vigorosa disposizione d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall’incendio distruttore dell’incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, nascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale».

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