Il potere e la libertà

Stefano Murgia – Luca Poggi – Antonio Casu

L’antinomia tra il potere e la libertà costituisce una delle manifestazioni più profonde e multiformi di ogni organizzazione politica e sociale. In un recente incontro, promosso dall’associazione culturale Il Cenacolo di Tommaso Moro, la fenomenologia del potere e il suo irrisolto conflitto con la libertà umana sono stati oggetto di approfondimento e confronto, a partire da una riflessione su alcuni aspetti di tale fenomenologia: in particolare le ragioni della sottomissione volontaria al potere; l’analisi dei meccanismi istituzionali e burocratici di cui il potere si serve per accantonare uomini che considera non più funzionali, e per converso la possibilità di vivere tale accantonamento non come esclusione ma come nuova opportunità; l’anelito di addomesticamento che sottrae al cittadino la sua libertà e lo consegna al tiranno assoluto, e le metodologie con cui questi se ne appropria. E anche, sullo sfondo, il rapporto tra simulazione e dissimulazione. In questa ricognizione, sono stati presi in considerazione alcuni testi che forniscono rilevanti chiavi di lettura: il Discorso della servitù volontaria, di Étienne de La Boétie; Il simulatore, di Frederick Forsyth; e Liberi servi, di Gustavo Zagrebelsky. Un acuto moralista del Cinquecento, un famoso scrittore di spy-stories, e un maestro del costituzionalismo italiano, commentati da Stefano Murgia, Luca Poggi e Antonio Casu. “Tempo Presente” ne pubblica oggi gli interventi inediti.

Stefano Murgia

Della servitù volontaria
Discorso della servitù volontaria e Contro uno sono i due titoli con cui è stata pubblicata, nel corsi dei secoli, l’opera di Étienne de La Boétie scritta intorno al 1550.
Il secondo dei due titoli rivela immediatamente il tema del saggio: il discorso è Contro uno, contro l’idea e la pratica di un uomo solo al comando.
Se, invece, volgiamo l’attenzione al più esteso dei due titoli con cui l’opera è maggiormente conosciuta, Discorso della servitù volontaria, cogliamo subito il carattere “scandaloso” dell’opera dell’autore francese.
Perché “scandaloso”?
Perché parlare di servitù, di sottomissione ad un potere arbitrario per scelta volontaria dell’uomo, potrebbe apparire, a una prima lettura, abnorme, insostenibile, per certi versi “contro natura”. D’altra parte è questo aspetto scabroso che giustifica il fatto che l’opera di La Boétie abbia avuto una fortuna alterna nel corso dei secoli che ci separano dalla sua scrittura. Per lungo tempo, infatti, la privazione della libertà e la condizione di servitù dell’uomo nei regimi tirannici sono state spiegate come dirette conseguenze della sopraffazione da parte del tiranno e come effetti dell’oppressione dei potenti sul popolo, suo malgrado, sottomesso.
Il giovane autore – che da studente di legge all’Università di Orleans aveva respirato un clima culturale che, per quel tempo, era di grande apertura e di libero confronto intellettuale – capovolge la prospettiva tradizionale. Nello stesso periodo storico in cui Machiavelli si dedica, su basi nuove, all’analisi delle forme e delle tecniche di esercizio del potere politico, La Boétie affronta il tema dalla parte di chi “subisce il potere”, con l’obiettivo di svelare quanto complessa e sottile sia la relazione che si instaura tra dominatori e dominati nei regimi dispotici.
Étienne de La Boétie è noto soprattutto come grande moralista. Dalla lettura dell’opera si ricava, tuttavia, l’impressione che egli esprima una visione così articolata e matura delle dinamiche del potere, da far apparire riduttiva la sua qualificazione come moralista.
La Boétie è certamente un pensatore morale di grande levatura. È un uomo di pensiero, colto e raffinato, che ha saputo scavare mirabilmente nell’animo umano per individuare le ragioni che possano spiegare un fenomeno così aberrante come la libera sottomissione dell’uomo alla volontà assoluta di un padrone.
Ma La Boétie è anche altro, molto altro.
È innanzitutto un acuto analista del potere politico. Nell’opera di La Boétie, infatti, emergono pienamente la volontà e la capacita di descrivere e di analizzare i meccanismi interni di funzionamento del potere autoritario e di metterne in luce le strutture portanti. c’è lo sguardo attento e lucido sui sistemi attraverso i quali il potere si forma, si consolida e si tramanda.
Ma c’è ancora di più. C’è la volontà di esprimere una visione dell’uomo nel mondo, dell’uomo come soggetto di una comunità politica. La Boétie è quindi anche un pensatore politico.
Guardiamo innanzitutto al La Boétie pensatore morale.
La Boétie rovescia l’immagine tradizionale e stereotipata del tiranno come figura dotata di forza insuperabile, di solidità inscalfibile, di invincibilità. Egli spinge il suo sguardo fino al fondo dell’anima del tiranno e trova che il tiranno non conosce né amicizia, né amore. il tiranno non è amato e non sa amare. Non può esserci vincolo di amicizia – dice La Boétie – laddove si coltiva la crudeltà, si usa la slealtà e si pratica l’ingiustizia. Quando i malvagi si riuniscono intorno al tiranno non realizzano una compagnia, un sodalizio fraterno. Danno vita a un “complotto” all’interno del quale si temono l’un l’altro. Non sono amici – dice La Boétie – sono complici.
In questa condizione il nostro autore vede chiaramente un fianco ben nascosto di vulnerabilità, perché la tirannide poggia non già sulla solida base dei sentimenti di giustizia, solidarietà e di amicizia, ma sul sentimento precario e divorante della paura.
In questa lucida descrizione in chiave morale dell’animo del tiranno, governato dalla paura, riecheggiano le parole scritte, più di quattrocento anni dopo, da Elias Canetti (Potere e sopravvivenza, Adelphi, 1994, p. 27), nelle quali il premio Nobel per la letteratura, analizzando le dinamiche profonde che spingono l’uomo ad accumulare potere, sottolinea come “l’intenzione autentica del vero potente è questa: egli vuole essere l’unico. Vuole sopravvivere a tutti, affinché nessuno sopravviva a lui. Egli nutre sempre un segreto timore nei confronti di coloro cui comanda; e sempre nasce in lui la paura anche verso chi gli è più vicino”.
L’analisi sul profilo morale del tiranno e sulla relazione che si instaura fra il tiranno e i suoi sostenitori offre una chiave di lettura fondamentale, che La Boétie adopera sia per “smontare” il mito della invincibilità del despota oppressore, sia per svelare l’aspetto più riposto del fenomeno, vale a dire il legame reciproco di scambio che si crea fra il tiranno e i suoi sostenitori, che vedremo più avanti.
Svelare l’intima “solitudine” del tiranno significa mettere a nudo la spirale che si avvolge attorno alla sua anima famelica e tuttavia sempre vuota. La Boétie usa la metafora del fuoco che, partendo da una scintilla, si propaga e divampa tanto più quanta più legna gli si dia per alimentarlo e viceversa tende a estinguersi quando non trova più nulla da consumare. Allo stesso modo, dice La Boétie, i tiranni più chiedono e più ottengono, più devastano e distruggono e più si obbedisce loro, in una morsa che si stringe sempre più. Ma, se si smette di servirli, allora, anche senza combattere, essi sono “nudi e sconfitti”, non sono più nulla, come il ramo che rinsecca e muore quando la radice lo priva di linfa o di nutrimento.
La Boétie pensatore morale indica, in questo modo, anche la strada per uscire dalla servitù volontaria e lo fa compiendo una scelta etica fondamentale: il tiranno non si abbatte con la violenza. egli dice chiaramente: “non voglio che lo abbattiate o lo facciate a pezzi: soltanto, non sostenetelo più, e allora, come un grande colosso cui sia stata tolta la base, lo vedrete precipitare sotto il suo peso e andare in frantumi” (Étienne de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, 2014, p. 37).
Si tratta di una posizione radicale, che può faticare a reggere di fronte ai fatti crudi della storia. Ma la scelta “non violenta” di La Boétie non scaturisce solo da una opzione morale. Scaturisce anche e soprattutto da una riflessione accurata sul rapporto tra violenza e potere politico e specialmente sui rapporti profondi, tenaci, indicibili che legano tra loro gli uomini che si raccolgono intorno al tiranno.
E qui entra in gioco l’analista del potere politico.
La Boétie scandaglia i meccanismi di funzionamento del potere, portando l’attenzione sull’atteggiamento di chi è destinatario del potere. Vuole capire attraverso quali legami il potere riesce a strutturarsi e a rafforzarsi attorno a un unico individuo.
Dopo aver analizzato le tre modalità con le quali si formano i regimi tirannici (per elezione, per usurpazione, per diritto di successione), La Boétie va diritto al cuore del problema, usando parole di rara capacità evocativa. Parole che si riportano di seguito, giacché sarebbe impossibile riassumerle, così come è impossibile “riassumere” un capolavoro di pittura. Scrive La Boétie: “vengo dunque ora a un punto che, a mio avviso, costituisce l’arcano e il segreto del dominio, il sostegno e il fondamento della tirannia. Chi pensa che le alabarde, le guardie e le torri di sorveglianza proteggano i tiranni, a mio avviso si sbaglia di grosso… Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno. A prima vista non ci si crede, ma è davvero così: sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli tengono l’intero paese in servitù; ci sono sempre stati cinque o sei a cui il tiranno prestava ascolto, perché si erano fatti avanti da sé, o perché era stato lui a chiamarli, per farne i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle sue voluttà, i soci nello spartirsi i frutti delle rapine. Quei sei consigliano talmente bene il capo che egli ora, grazie a questa loro intesa, deve essere malvagio non soltanto per via della propria malvagità, bensì anche per via della loro. Quei sei hanno poi sotto di loro seicento approfittatori, e questi seicento fanno ai sei quel che i sei fanno al tiranno. Questi seicento ne tengono poi sotto seimila, a cui hanno fatto fare carriera, affidandogli il governo delle province, o l’amministrazione della spesa pubblica…” (ivi, p. 59 ss).
Dopo aver così efficacemente descritto il sistema di potere, con immagini che rendono appieno il suo carattere articolato e diffuso, il nostro autore pone l’accento sull’elemento di spinta che mette in moto e governa tutta la macchina del governo dispotico: l’illusione di chi, sostenendo il tiranno, crede di poter conquistare ricchezze e privilegi.
Lo scopo di accumulare beni, posizioni, cariche, costituisce per La Boétie l’oggetto di una doppia illusione. Innanzitutto perché egli assegna ben più alto valore e ben altra consistenza a beni non materiali: la libertà, l’amicizia, la solidarietà, la cultura. ma soprattutto perché in un sistema tirannico non v’è chi possa godere delle proprie ricchezze e del proprio agio al riparo dall’invidia e dalla malvagità del despota.
Nulla è sicuro nel regime dispotico, nel quale il tiranno assume un ruolo sociale distruttivo ogni qual volta egli, nonostante l’obbedienza totale, finisca per detestare il proprio regno fino al punto da volerlo distruggere.
Il tiranno, che fino a un certo punto non vede altro che se stesso, alla fine non riconosce più neanche la propria figura, essendo “incapace di amare persino se stesso” (ivi, p. 64).
A questo scenario cupo e senza uscita, dominato del potere di “uno”, il tiranno, che è “assoluto” proprio in quanto sciolto, svincolato da qualunque legame con la propria comunità, La Boétie contrappone la rappresentazione di una società che la natura vuole fondata sulla libertà dei singoli e sulla comunione delle volontà.
In questa rappresentazione si può apprezzare tutta lo spessore della concezione di La Boétie come pensatore politico.
La libertà – egli afferma – viene dalla natura. gli uomini “per natura” sono liberi ed eguali. ma in che senso sono “uguali”? Dice il nostro autore che è la natura a farci tutti della stessa forma e dello stesso stampo, ma non per renderci uniformi, ma per consentirci di trovarci, “di riconoscerci l’un l’altro come compagni o meglio come fratelli” (ivi, p. 38).
La Boétie è lontano da ogni forma di egualitarismo. “la natura – egli aggiunge – ha mostrato in ogni cosa che non voleva tanto farci tutti uniti, ma tutti unici (tous uns)” (ibidem).
Questa limpida concezione dell’uomo, fondata sul principio che oggi diremmo “personalistico”, della unicità e dignità di ogni creatura umana si accompagna ad una visione in cui il vincolo solidaristico richiama tutti a “rimirarsi e a riconoscersi nell’altro”.
È attraverso lo scambio delle idee, mediante il dono della parola, che si addiviene alla decisione politica. Attraverso il confronto, attraverso la dichiarazione comune e reciproca dei nostri pensieri, dice La Boétie, si addiviene alla comunione delle nostre volontà: “noi siamo tutti naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni; e a nessuno può saltare in mente che la natura abbia posto qualcuno in servitù, avendoci, posti tutti in compagnia” (ibidem).
Siamo evidentemente di fronte a una visione che concepisce il sistema politico come espressione della volontà di molti e non di uno solo.
Il moralista lascia spazio al pensatore politico. Un pensatore politico di grande modernità. Tanto che potremmo cedere alla tentazione di qualificare La Boétie come antesignano dei principi democratici e del liberalismo, se non fossimo trattenuti dal rispetto che si deve alla storia degli uomini e delle idee.
Peraltro, è indubbio che nel pensiero di La Boétie vi siano molti aspetti destinati a essere ampiamente coltivati e sviluppati nella elaborazione del pensiero politico moderno.
Un tratto di assoluta peculiarità, rispetto al suo tempo, ma per alcuni versi anche rispetto a molte delle dottrine politiche successive, è l’idea che la libertà dell’uomo, di ogni singolo uomo, si lega inscindibilmente alla sua capacità di costruire una comunione di intenti assieme agli altri uomini.
E qui il pensatore politico mostra tutta la sua maturità e il suo grado di elaborazione. Secondo La Boétie non c’è dubbio che per natura gli uomini siano liberi. Basta pensare agli esempi tratti dal mondo animale. Anche la bestia nata libera si rifiuta di accettare di perdere la propria indipendenza. Quindi, non c’è nulla di più naturale della libertà. Ma l’impronta naturale, egli aggiunge subito, per buona che sia, rischia di perdersi se non viene coltivata. e qui c’è un insegnamento fondamentale, che riguarda la necessità di fare in modo che la pianta della libertà sia costantemente coltivata, per evitare che essa si secchi o perda il proprio vigore.
Gli uomini – egli afferma – devono coltivare il seme della libertà. E lo devono coltivare insieme.
Qui sovvengono le parole di un grande giurista del novecento, Augusto Carlo Jemolo, che ci ricorda come “la libertà, come tutti i beni della vita, come tutti i valori, non basta averla conquistata una volta per sempre, ma occorre conservarla con uno sforzo di ogni giorno, rendendosene degni, avendo l’animo abbastanza forte per affrontare la lotta il giorno in cui fosse in pericolo” (A.C. Jemolo, Cos’è la Costituzione, Donzelli, 2008, p. 57).
Nelle fasi storiche nelle quali prevale la tirannia – dice La Boétie – non mancano persone che custodiscono la devozione per la libertà. Ma spesso sono individui che non si conoscono tra loro, non solidarizzano, non si fanno forza, e quindi non possono cambiare nulla. Per La Boétie libertà e solidarietà sono aspetti legati in maniera inscindibile, perché solo in una comunità solidale si possono salvaguardare le libertà necessarie all’affermazione di ogni essere umano nella sua unicità.
La libertà staccata dalla partecipazione alla vita di una comunità politica vacilla e nella solitudine l’individuo rischia di perdersi.
In questo concetto, “il pericolo di perdersi”, c’è ancora un ultimo fascio di luce con il quale La Boétie illumina il rapporto fra potere politico e libertà individuale. Egli richiama la nostra attenzione sul fatto che, a veder bene, non c’è una frattura invalicabile tra desiderio di libertà e ricerca della servitù volontaria, al contrario si tratta di terreni dell’animo contigui e ci sono condizioni nelle quali il primo si inaridisce e diventa fertile il secondo.
Lo scivolamento da un terreno all’altro è sempre in agguato ed è tanto più possibile quanto più i legami tra uomini liberi si allentano e vengono meno.
Se da “tutti unici”, ma inseriti in una comunità viva, solidale, diventiamo invece somma di singoli, separati e isolati, finiamo per essere più vulnerabili, più spaventati, più propensi a cercare sicurezza e protezione in una figura forte piuttosto che a “fraternizzare, producendo, attraverso la dichiarazione comune e reciproca dei nostri pensieri, una comunione delle nostre volontà” (Étienne de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, op. cit., p. 38).
In questo modo rischiamo di assuefarci al sapore amaro della servitù e di perdere il gusto, la dolcezza della libertà.


Luca Poggi
Il Simulatore
La riproposizione di quest’opera di Forsyth, risalente a venticinque anni fa, costituisce a mio avviso, oltre che un suggerimento di lettura di un libro sempre avvincente, un atto di fiducia e di amore nei confronti della letteratura: esprime infatti la convinzione che la letteratura – saggistica, narrativa, memorialistica, ecc. – rappresenta sempre un’occasione di arricchimento e, nel descrivere la realtà delle cose, invita sempre a riflettere. Ciò vale per ogni tipo di letteratura, non solo quella “colta”, la c.d. letteratura mainstream, ma anche quella di genere o di consumo: anche questa, se vera letteratura, oltre ad essere fonte di intrattenimento (dimensione non certo trascurabile nella vita di ognuno) lascia sempre, più o meno consapevolmente, spunti di riflessione.
Può apparire singolare ma è tutt’altro che casuale proporre, accanto a un testo di un moralista del ’500 e a quello di un pensatore e giurista contemporaneo, anche un libro di “evasione”, una spystory (ma potrebbe essere un libro di fantasy, fantascienza, ecc.). Penso infatti che le due dimensioni (riflessione e intrattenimento) siano entrambi essenziali e connaturate a ogni letteratura.
Da questo punto di vista non si può non condividere quello che diceva Huizinga sul fatto che l’elemento ludico, di gioco, sia essenziale nella vita di ogni uomo; esso non deve trasformarsi in cultura, ma è già di per sé cultura. Non occorre perciò aver paura di lasciare emergere l’aspetto di intrattenimento della letteratura, pensando che non sia serio. Al contrario, come diceva Huizinga, l’attività ludica ha valore proprio perché non congiunta ad alcun interesse di carattere materiale ed economico: è attività libera, cui l’individuo prende parte per propria scelta; instaura una realtà diversa da quella di tutti i giorni; è infine attività disinteressata. Se qualcuno rimane stupito da questa sottolineatura della dimensione ludica dell’uomo, si può ricordare che persino nei Salmi si trova la sorprendente affermazione che “dio ama giocare con i figli dell’uomo”.
Questa premessa appare oltremodo opportuna nel presentare l’opera Il simulatore di Fredrick Forsyth. Per i pochi che non lo conoscono, basti dire che Forsyth, a quasi 80 anni e oltre 70 milioni di copie di libri venduti, è uno dei principali autori al mondo del genere c.d. spy story. Una vita avventurosa, dalla nascita nel Kent inglese all’università seguita in Spagna, fino alle esperienze da pilota della Raf (il più giovane arruolato fino ad allora nel Regno Unito) o a quelle da giornalista al di là del muro di berlino e poi di inviato di guerra nell’Africa degli anni ’60, fino ai successi come scrittore che gli danno fama mondiale: si pensi a best seller quali il Giorno dello Sciacallo, Dossier Odessa, Il Quarto Protocollo.
Di recente ha pubblicato la sua autobiografia, da poco uscita in Italia, in cui rivela di aver avuto un passato nel Secret Intelligence Service, il famoso MI6. Non si è trattato peraltro di una novità sconvolgente, sia perché il ruolo di agente segreto sotto copertura è comune ad altri famosi autori inglesi quali John Le Carré o Graham Green, sia perché era già diffuso il sospetto che Forsyth potesse avere avuto rapporti con i servizi inglesi, considerando la sua vita, le sue relazioni, le sue capacità di raccogliere informazioni ed anche le stesse allusioni che a volte compaiono nei suoi libri. Proprio per le sue esperienze, Forsyth conosce bene come va il potere, i retroscena degli ambienti diplomatici e militari e, nel caso in esame, le dinamiche attraverso cui passa l’organizzazione burocratica del potere, di ogni potere, da quello istituzionale a quello economico.
Questo è l’aspetto che oggi ci interessa e il libro di cui si parla, Il simulatore, oltre ad essere un’interessante spy story e ripercorrere alcuni dei teatri classici della guerra fredda dalla Germania Est, alla Libia, all’Irlanda, contiene alcune pagine in cui descrive magistralmente, quasi nel dettaglio, come il potere si organizza per mettere da parte uomini che a un certo punto considera scomodi. Quello che colpisce è proprio la cornice istituzionale-burocratica in cui s’inserisce il romanzo, talmente verosimile da far pensare non sia inventata.
Il racconto delle avventure che vedono come protagonista “il simulatore” è infatti preceduto da un breve antefatto; si tratta di un felice espediente narrativo per introdurre il racconto delle vicende spionistiche che sono il cuore del romanzo. tale antefatto però, lungi dall’essere solo un espediente letterario, contiene spunti interessanti sul tema che oggi discutiamo (potere-libertà); infatti, nel descrivere un episodio nella vita di un importante organismo istituzionale inglese, in questo caso il SIS, lascia emergere la logica del potere, quella logica che opera in ogni struttura di potere, pubblica e privata, di ogni Stato.
Analizziamo ora i momenti salienti in cui si sviluppa questo antefatto, servendoci anche delle parole dell’autore; vedremo che l’esperienza non è molto diversa da quella descritta quasi 5 secoli fa da Etienne de La Boétie nella sua opera Della servitù volontaria: cambiano solo i modi, i veli apparenti che coprono la sostanza, cioè l’esercizio indebito del potere.
L’incipit del romanzo ci immette subito in media res: “Nell’estate del 1983 l’allora capo del Secret Intelligence Service britannico, nonostante una certa opposizione interna, approvò l’istituzione di un nuovo ufficio. l’opposizione veniva soprattutto da quelli già esistenti, che avevano feudi territoriali sparsi in tutto il mondo: infatti il nuovo ufficio era destinato ad avere un’ampia giurisdizione, la cui portata superava le frontiere tradizionali”.
Si tratta quindi di procedere all’istituzione di un nuovo ufficio. Quali motivazioni? La guerra delle Falkland, pur vittoriosa, aveva lasciato strascichi nei servizi perché l’Inghilterra si era lasciata cogliere di sorpresa. A ciò si aggiungeva che il nuovo segretario generale dell’URSS, Andropov, da ex direttore del Kgb, “aveva lanciato tutta una successione di operazioni di spionaggio aggressivo e di misure attive del Kgb contro l’occidente. Si sapeva che in particolare prediligeva, fra le misure attive, il ricorso alla disinformazione”. Per contrastare la propaganda sovietica, il governo della signora Thatcher decide di reagire creando una nuova struttura: “l’ufficio Simulazione, disinformazione e operazioni psicologiche”. La decisione politica suscita, come capita non di rado, resistenze burocratiche; l’opposizione interna è motivata dal fatto che la nuova struttura altera le ripartizioni di potere prefissate. ciononostante l’allora capo del SIS, spinto dall’urgenza del momento, riesce a scegliere l’elemento migliore, Sam McCready, ribattezzato scherzosamente da allora come “il simulatore”.
Tuttavia ciò non placa le resistenze interne. la figura scelta, infatti, non è un carrierista e non proviene da ambienti e circoli altolocati, ma ha un’origine operaia. i genitori, umili lavoratori manuali, muoiono durante la seconda guerra mondiale e Sam passa la sua infanzia in orfanatrofio. Si rivela intelligente e capace, si arruola da giovane nell’esercito e ben presto viene assegnato ai corpi dell’intelligence in Malesia dove si mette in luce per la sua capacità operativa. di ritorno a Londra viene reclutato per il SIS e quella rappresenta, per trent’anni, la sua unica famiglia.
Nella sua attività al SIS emerge perché dà prova di essere non solo un abile agente operativo ma soprattutto si rivela dotato di autonomia e indipendenza di giudizio. Proprio grazie a queste doti – nonostante le perplessità di quanti, all’interno, lo ritenevano inadatto al delicato ruolo affidatogli, non provenendo dalle esclusive scuole private del Regno unito e ritenendolo incapace di destreggiarsi nella politica interna degli ambienti dei Servizi – ricopre con successo il suo incarico: eppure, malgrado ciò o forse proprio per questo, dopo sette anni di attività ricca di missioni portate a compimento, diventa un elemento scomodo. Per quali motivi?
Anzitutto è cambiata la situazione internazionale. la fine della guerra fredda, la dissoluzione dell’unione Sovietica e l’avvio di una politica di distensione tra i due blocchi, fa emergere la necessità di ripensare la struttura dell’ufficio Simulazione, che nella sostanza significa una sua smobilitazione. Di qui l’esigenza di “liberarsi” di quegli agenti che nell’epoca precedente erano stati i più attivi e intraprendenti, ma che nella nuova fase di appeasement che si apre sono ormai visti come un ostacolo e non più un’opportunità.
È la fine di un’epoca. in questo nuovo scenario, nel 1990, il nuovo capo del SIS, sir Mark, è chiamato a colloquio dal sottosegretario agli esteri, sir Robert, che ha la delega ai servizi. il colloquio andrebbe letto con attenzione perché, con precisione e senza enfasi, fa vedere come il potere politico – nella persona del sottosegretario, esponente del consiglio di gabinetto – decida di liberarsi di un uomo che dà fastidio e come il potere amministrativo – nella persona del capo dei servizi sir Mark – sia acquiescente. Viene qui in mente l’apologo di La Boétie quando dice che il potere ha sei servitori che hanno sotto di loro 600 approfittatori e i 600 ne hanno sotto di loro 6000 a cui hanno fatto fare carriera affidandogli l’amministrazione della spesa pubblica.
All’inizio del colloquio il politico, sir Robert, seguendo una logica a spirale di avvicinarsi per gradi al punto, tira fuori “un argomento ombra”, cioè il budget dei servizi; si tratta di un finto argomento, solo per far capire a sir Mark, che coglie l’allusione, che vi è un problema. Il vero oggetto del colloquio non è infatti il finanziamento dei servizi, sebbene si tratti di un argomento plausibile.
Gradualmente sir Robert si avvicina al vero tema: affronta l’argomento del personale: argomento vero, ma ancora generico. la fine della guerra fredda ha determinato la necessità di sfoltire il personale dei servizi che svolgono la loro attività nelle ambasciate, sotto copertura. All’inizio sir Mark resiste alla pressione: “non voglio esordire come capo del SIS con un’epurazione degli agenti anziani”. le pressioni politiche allora aumentano: il consiglio di gabinetto, ribatte sir Robert, è unanime su questa linea, alcuni agenti devono cambiare incarico o dovranno accettare il pensionamento anticipato. Sir Mark, che sa le regole del potere, capisce che è giunto il momento di non opporsi più: “conosceva la realtà del potere: Avrebbe dovuto inchinarsi”. Chiede però una copertura politica (“avrò bisogno di indicazioni sulle procedure”), naturalmente subito accordata da sir Robert. La copertura era necessaria «per salvaguardare la propria posizione di fronte ai subordinati, desiderava apparire manifestamente sopraffatto dalla volontà altrui”.
A questo punto arriva il “punto vero” del colloquio: occorre un precedente che funzioni per tutti, un capro espiatorio di cui liberarsi: sir Robert fa finalmente il nome di Sam McCready. tutto il dialogo illustra magistralmente una meccanica tipica del potere: utilizzare le riforme, le razionalizzazioni, i risparmi di spesa – tutti argomenti in apparenza inoppugnabili – per liberarsi di una o più persone scomode. il potere, almeno in una democrazia, una democrazia formale, ha bisogno di un alibi, di un pretesto, di un argomento per così dire politically correct, per coprire, per velare agli occhi dei più, l’esercizio indebito del potere stesso.
Ma perché il simulatore, Sam McCready è una persona scomoda, da allontanare? Perché, come si diceva, è troppo indipendente, poco diplomatico, “troppo rozzo” per districarsi nella politica interna dei servizi e poi non apparteneva ai circoli giusti del potere. Eppure era perfettamente riuscito in un incarico difficile: aveva ottenuto la collaborazione delle strutture locali, sapeva motivare le persone, il suo modo di agire informale gli permetteva di ottenere le informazioni cercate. In sintesi, forniva i risultati richiesti. Con linguaggio moderno si potrebbe dire che era l’uomo giusto al posto giusto, ma non era omologato al potere e perciò andava rimosso.
Di contraltare a Sam McCready, Forsyth ci presenta invece, con pochi e felici tratti, la figura di Timothy Edwards, vicecapo del SIS, il quale per l’autore rappresenta la tipologia di chi riesce sempre a stare al posto giusto, colui che sa capire “dove tira il vento” e sa adeguarsi subito alle mutate situazioni. È l’uomo politically correct, il ritratto della cortesia formale, come dice l’autore; rappresenta il tipo di tutti quei funzionari amministrativi destinati a “fare carriera” perché ha deciso di sposare, senza contrasti ed opposizioni, le logiche del potere.
Nel corso dell’istruttoria in corso al SIS per preparare il nuovo documento in linea con le richieste della politica, Edwards esprime un rincrescimento formale per la sorte che attende McCready e una sottile captatio benevolentiae per sir Mark, il capo: “È doloroso, certo, perché tutti noi abbiamo simpatia per Sam. ma il capo ha un servizio da dirigere”.
L’autore guarda invece con più simpatia la figura di sir Mark, il quale, pur costretto a sottostare alla volontà politica, non ne condivide del tutto le logiche e soprattutto non cambia i giudizi sulle persone. Non a caso, dopo il commento di Edwards sopra riportato, sir Mark – che in cuor suo considerava il pensionamento anticipato di Sam come il pagamento dei trenta denari d’argento a Giuda – “comprese per la prima volta perché non avrebbe raccomandato Timothy Edwards come suo futuro successore. Lui, il capo, avrebbe fatto ciò che doveva perché era necessario, ma non gli sarebbe piaciuto. Edwards l’avrebbe fatto perché gli avrebbe facilitato la carriera”.
Viene quindi approvato all’interno del SIS un documento, redatto secondo le indicazioni politiche, volto alla razionalizzazione del personale. Si tratta di un documento evasivo rispetto alle scelte strategiche, mirante a un unico obiettivo: lo spostamento o il pensionamento dei veterani; il primo tra questi sarebbe stato Sam McCready. Quale procedura amministrativa viene scelta per allontanare il simulatore dal suo posto? La proposta un altro incarico di tipo amministrativo (la scelta fra comandante della Scuola di addestramento, capo della contabilità amministrativa o infine capo del registro centrale). Se questi incarichi erano rifiutati la conseguenza era il pensionamento anticipato: “tutti infatti sapevano le regole. Bastava rifiutare tre posti sgraditi per sentirsi imporre il pensionamento anticipato”.
Il simulatore all’inizio non cede, chiede un’udienza al servizio del personale per ottenere un diverso incarico, anche inferiore, ma consono alle sue caratteristiche, come il ritorno alle attività sul campo. un suo giovane e stimato collaboratore, Denis, che egli si porta con sé per perorare la sua causa, fa una brillante esposizione dei risultati ottenuti negli anni dal simulatore (in questa sede sono esposte le vicende spionistiche che sono il contenuto del libro); i presenti sono costretti ad ammettere che Sam McCready è il migliore.
Al termine dell’ampia e brillante esposizione, il collega pensa di essere riuscito nel suo scopo, ma, finita l’udienza il simulatore, tra lo sconcerto del collega che lo vede mettere da parte le sue cose per liberare l’ufficio, capisce che l’esito è segnato: “Denis, sei stato magnifico. Hai fatto un ottimo lavoro. Ce l’hai messa tutta. chiederò al capo di assegnare l’ufficio a te. ma devi imparare da che parte si alza il sole. È finita. Il verdetto e la sentenza erano già decisi qualche settimana fa, in un altro ufficio e da un altro uomo”. Il potere cerca sempre di allontanare chi non serve più. I modi sono però vari, alcuni in apparenza incruenti come la pensione anticipata. il potere blandisce, cerca la connivenza, non vuole reazioni aperte.
Il romanzo non termina però, come ci si attenderebbe, con una delusione, ma, in modo inatteso, con la scoperta da parte del simulatore di una nuova vita: “Denis, sai come dice il proverbio? Meglio un giorno da leone che cento da pecora. Per me sarebbe una vita da pecora se finissi nella biblioteca dell’archivio o ad approvare conti spese. Ho vissuto il mio giorno da leone e ho fatto del mio meglio. Adesso è finita. Sono fuori. C’è un mondo pieno di sole, Denis. io ci andrò e mi divertirò”.
Il finale è eloquente e sorprendente: “Quattro settimane dopo Saddam
Hussein invadeva il Kuwait. Sam McCready udì la notizia mentre stava pescando a tre chilometri dalla costa del devon. Riflettè sull’annuncio e decise che era venuto il momento di cambiare esca”.
Il libro si conclude lasciando così in sospeso una domanda: la scelta finale è una sconfitta o una vittoria? La scelta di “darsi alla pesca” va vista come acquiescenza al potere o come la ricerca di un nuovo spazio di libertà, seppure individuale? È un domanda che penso vada lasciata aperta, senza risposte scontate, così come la vita che offre sempre una pluralità di risposte ai limiti imposti, più o meno ingiustamente, alla nostra libertà. Non affronto qui volutamente il tema – interessante ma ci porterebbe lontano – se oltre a risposte di tipo personale vadano pensate risposte di tipo collettivo.
Per cercare di dare comunque una risposta, si può dire che da parte del potere si tratta indubbiamente di una vittoria: voleva liberarsi di quell’uomo e ha ottenuto il suo risultato.
Ma questo rappresenta di per sé una sconfitta per l’uomo? In parte si, in parte no. Si, nel senso che non gli è stato più possibile fare il suo lavoro, lavoro che svolgeva con competenza, passione, al servizio della società: in questo senso la vittoria del potere ha limitato la sua libertà. Noi, leggendo oggi il finale, potremmo anche pensare che Sam è stato comunque fortunato perché è andato in pensione e con una buona pensione (da ciò si vede che il libro è stato scritto più di 20 anni fa, oggi probabilmente Sam sarebbe stato licenziato e basta)…
Già da queste considerazioni si comprende che la risposta non è – non può essere – univoca, così come la vita reale che è piena di chiaroscuri, in cui un ostacolo che limita la propria libertà può consentire di scoprire altre dimensioni di vita. Forse la vera risposta è che non bisogna rassegnarsi mai alle situazioni di oppressione, anche se le scelte concrete saranno diverse da persona a persona, da situazione a situazione. ognuno in fondo reagisce all’emarginazione del potere come può e come sceglie: come direbbe forse La Boétie, già il fatto di reagire e non rassegnarsi, di scoprire che “c’è un mondo pieno di sole”, rappresenta un segno di speranza che il potere non abbia l’ultima parola.


Antonio Casu
Liberi servi
Zagrebelsky non racconta Dostoevskij, e neppure lo interpreta soltanto. Interloquisce con lui. la sua esegesi è corale, un dialogo a distanza nel tempo e nello spazio.
Il fulcro è la leggenda del grande inquisitore, il capitolo centrale de I Fratelli Karamazov, la declinazione di problematiche fondamentali nel campo religioso e morale per l’umanità di ogni tempo: “un testo che non cessa d’interrogarci e che noi non cessiamo d’interrogare secondo le nostre, attuali domande”. Ciò è certamente vero. Zagrebelsky ritiene che proprio per questo il testo si sia ormai emancipato dall’ambito dei convincimenti cristiani del suo autore, anzi più precisamente della “visione generale della libertà cristiana”, per offrirsi all’uomo contemporaneo in quanto tale. o forse, all’opposto, si potrebbe ritenere che il testo parla all’uomo contemporaneo proprio perché la “visione generale della libertà cristiana” definisce un paradigma delle libertà fondamentali tuttora valido, che si manifesta nella portata universale delle domande poste dallo scrittore russo. Si tratta di una questione di importanza capitale, la cui risoluzione tuttavia non incide sull’attualità del testo, e del capitolo sul quale si snoda la sua riflessione.
Zagrebelsky rievoca il lungo e sedimentato nascere della leggenda, attraverso un filo rosso che attraversa molte opere di Dostoevskij, dalle Note invernali su impressioni estive (1863) fino al Diario di uno scrittore (1881, l’anno della morte).
Nelle Note, scritte dopo la sua prima visita a Parigi e Londra, nel 1862, Dostoevskij percepisce in profondità la nuova fase dell’umanità, il dominio della tecnica, la sua forza conformatrice nei confronti della morale e della politica, anzi di tutto il sistema dei valori. Il simbolo di questo nuovo corso dell’umanità, fondato sull’idea di progresso permanente e salvifico, è il “Palazzo di cristallo” di Londra, una avveniristica architettura (per allora) edificata per l’esposizione universale di Londra del 1851, e poi demolita nel 1936.
Crystal Palace era, per lui, il tempio della nuova religione universale, che esigeva una moltitudine di credenti, e si poneva come “un oggetto di fede, di fronte al quale si piega la ragione collettiva di una moltitudine omologata, razionalizzata, matematicizzata e pacificata dalla tecnica e dal commercio”. Dostoevskij ne vede una moderna manifestazione del culto di Baal, l’antica divinità fenicia che nella tradizione biblica assurge ad emblema dell’idolatria, che nei tempi ultimi riunisce l’umanità in “un unico gregge”, espressione significativamente usata in senso antitetico a quella che compare in Gv 10, 16: “ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore (τῆς φωνῆς μου ἀκούσουσιν, καὶ γενήσονται μία ποίμνη, εἷς ποιμήν)”.
Non può sorprendere il frequente parallelo tra critica letteraria ed esegesi biblica operato dall’autore, profondo conoscitore dei testi, il quale rievoca le parole dedicate al Palazzo di cristallo dallo scrittore russo: “una sorta di quadro biblico, un’evocazione di babilonia, una specie di profezia dell’Apocalisse”. Ad avvalorare questa tesi, il discorso dell’inquisitore inizia con le stesse parole formulate da Satana dopo aver invano esperito le tre tentazioni al pinnacolo del tempio, quando si allontanò da Gesù “per ritornare al momento propizio” (ἄχρι καιροῦ), quel tempo nel quale, profetizza Paolo (1ts 2,4), sulla terra regneranno “pace e sicurezza”, proprio quel tempo nel quale il Signore verrà come “un ladro di notte” (…) “e nessuno scamperà”. “il «momento propizio», ha forse pensato Dostoevskij, era giunto, perché i doni del tentatore erano tutti, ormai, universalmente accettati”.
Quale differenza, annota Zagrebelsky, tra il “Palazzo di cristallo” di Dostoevskij e quello di Voltaire, che si era “invaghito” della borsa di Londra, e di Bentham, precursori di “una società mondiale fondata sul libero commercio”; e quella di Dickens e di Engels, che sia pure da diversi angoli di visuale ne vedono la magnificazione di un ordine sociale fondato in realtà sui drammi individuali, per l’uno, e sull’atomizzazione sociale che conduce inevitabilmente alla “guerra di tutti contro tutti”, che già Hobbes aveva teorizzato, per l’altro.
Ne costituisce riprova la stessa disperata ricerca di stordimento nell’alcol e nel cibo di “[q]uesta moltitudine (…) ubriaca, ma senz’allegria, (…) cupa, opprimente e, in un certo suo modo, stranamente silenziosa”. Una plebe che deve non solo “assuefarsi, adeguarsi” al Palazzo di cristallo, ma addirittura professargli “devozione e gratitudine”. “Così – nota Zagrebelsky – incomincia a prendere corpo la figura del grande inquisitore”, il sovrano e signore di una umanità placata e soddisfatta, libera di sfogare ogni suo desiderio – “mangia, bevi e godi” –, capace di osannare il potere che lo anestetizza: “Chi somiglia alla bestia? Sia gloria a lui, che fa scendere il fuoco dal cielo”.
Ecco, scrive Zagrebelsky, “[i]l Palazzo di cristallo è l’utopia senz’anima che si realizza per forza d’inerzia”. “A differenza delle utopie classiche (…) Baal è la conseguenza di una forza anonima, oggettiva, per questo irresistibile. È il simbolo della vittoria della ragione razionalizzatrice che promette – senza riuscirci integralmente, però, almeno per il momento – una felicità sia pure degradata a “benessere”. Zagrebelsky, quando parla delle utopie classiche – rivitalizzate, a suo dire, dalle idee del Settecento e dal socialismo utopistico – consegna alla classicità, e dunque espunge dalla modernità, la letteratura utopistica del Cinquecento e anche quella del secolo successivo. eppure, a mio avviso, la deriva autoritaria del pensiero utopistico moderno discende proprio dalle fondamenta del pensiero Sei-Settecentesco che hanno alimentato il mito del progresso (un’ideologia tossica, l’ha definita Rifkin), mentre l’utopia di Thomas More, esente da visioni costruttivistiche e apodittiche, che troveranno coronamento nella “fine della storia” profetizzata da Marx, si offre come un orizzonte di miglioramento personale e comunitario permanente, un esercizio individuale e collettivo di libertà responsabile.
Zagrebelsky constata che in molti scritti di Dostoevskij vi è continuità: “il filo della continuità è la ripulsa istintiva, passionale, della promessa di felicità universale che balenava seducente dal Palazzo di cristallo”. A questo dominio impalpabile quanto pervasivo, a questa signoria mascherata, sfuggono solo coloro che abbandonano la superficie per rifugiarsi nel sottosuolo – le Memorie del sottosuolo sono di appena due anni successive al viaggio londinese –, “il luogo dove si rifugia qualche esemplare della razza umana che ha mantenuto vivi coscienza e desiderio”, nelle forme possibili. E l’uomo del sottosuolo non è un romantico né un emarginato, ma “un eroe umanista”, il protagonista di una “impotente ribellione”, un essere dotato di coscienza, anche se “[l]a sofferenza è l’unico motivo della coscienza”.
La coscienza è la vera posta in palio della “lotta, dall’esito incerto, tra gli esseri umani che difendono la loro coscienza, ribellandosi, e i “diavoli” che s’ingegnano a spegnerla, distribuendo discordia. Questa è la fase intermedia, che precede l’avvento degli inquisitori”. “Ma i diavoli – ammonisce Dostoevskij nel Diario di uno scrittore – non commetteranno l’errore d’affrontare direttamente la questione della coscienza. Essi sono politici profondi e vanno verso la meta per la via più insensata e acuta. L’idea del loro regno è la discordia. Lo vogliono fondare sulla discordia” (…), con il “divide et impera”.
Sono questi i prodromi della Leggenda: “l’ultimo passaggio, il compimento, il superamento della fase della discordia, la teorizzazione dell’ordine compiuto che s’instaura sulla discordia, ma non per perpetuarla, ma per eliminarla per sempre e per realizzare finalmente l’ordine definitivo e totale di tutta l’umanità: confundi et impera. Nella Leggenda c’è ormai accettazione, anzi più che accettazione: anelito di addomesticamento. Il percorso dal soggettivo all’oggettivo si conclude: dall’iniziale disgusto, attraverso la contemplazione della resistenza nel disordine nascosto e abominevole, alla teorizzazione dell’ordine pieno, totale e oggettivo, un ordine che non contempla né disgusto, né resistenza – ciò di cui l’umanità ha perso le tracce – ma remissività”.
Ecco perché, come è stato osservato da più di un autore, la Leggenda è la prefigurazione dei regimi totalitari del secolo successivo e, aggiungo, icona del processo di omologazione della civiltà della tecnica e dell’era della globalizzazione. Scrive Zagrebelsky: “Il tempo in cui è situata l’azione narrata dalla Leggenda, il secolo XVI, è quello in cui prende forma lo “Stato moderno” ed è anche il tempo in cui si svela e s’inizia a teorizzare l’esistenza di una doppia legge e di una doppia morale: una ordinaria, che riguarda i comuni mortali, e una straordinaria, che riguarda i governanti cui spetta la cura dei superiori interessi dello Stato, la sua sopravvivenza, la sua difesa, la sua grandezza. Questi interessi stanno nel cuore del potere, riservato alla cura degli uomini di Stato. Le loro pratiche devono essere sottratte alla vista del volgo, incapace di levarsi a visioni autenticamente politiche”. (…) «Coloro che conoscono gli arcana del potere, cioè gli “iniziati” alle arti del governo, sono quindi autorizzati, quando occorre, ad affrancarsi dalla moralità comune, dalla “mera” legalità che vale per l’uomo medio (la legalità qui tue, se applicata alle “ragioni” dello Stato) e a proclamare ciò che, in termini moderni, si dice lo “stato d’eccezione”».
Una dicotomia simboleggiata da molte antitesi. Dalla rappresentazione dell’apparizione sulla scena dei due personaggi: da una parte il cristo, che appare in pubblico sull’assolata piazza antistante la cattedrale di Siviglia, che odora di lauri e di limoni, e opera una resurrezione, dà la
vita; dall’altra il grande inquisitore, che dopo averlo fatto incarcerare va a visitarlo da solo di notte, nella fioca luce del carcere, in un monologo auto assolutorio che precede la (nuova) condanna. Dalla domanda terribile: “[S]ei tu. Sei proprio tu?”, alla quale il prigioniero oppone il silenzio. E dalla condanna, alla quale oppone il bacio.
Possiamo intendere lo stato di eccezione come la condizione nella quale il fine, cioè il fine dello Stato, non solo giustifica i mezzi, in base alla “ragione di Stato”, ma si erge a Nomos, a norma suprema sovraordinata ad ogni legge giuridica, morale, religiosa. Vi è naturalmente un grave pericolo di delegittimazione e di scandalo nella consapevolezza popolare del conflitto tra il Nomos dello Stato, tutelato dai suoi custodi, e le altre norme, vigenti per il resto della popolazione, che proprio dallo Stato è richiesta di attenervisi, per non incorrere nel sistema sanzionatorio e repressivo della stessa pubblica autorità. Occorrono pertanto strumenti adeguati.
Questo pericolo viene scongiurato tramite il ricorso al segreto. La menzogna viene legittimata, se rivolta alla tutela dello Stato. La simulazione (non quella “onesta” teorizzata da Torquato Accetto nel 1641 come protezione della libertà di coscienza) diviene strumento operativo ordinario. Segreto, menzogna, simulazione sono gli strumenti principali della separazione tra morale dello Stato e morale comune. Dunque, il paradigma morale ne viene capovolto. Ciò che è bene per il popolo è male per i governanti, e viceversa. ma non si deve sapere. Anzi, ciò che si fa per il bene dello Stato deve essere percepito dal popolo come fatto per il popolo, a vantaggio del popolo, e vi è dunque necessità di organizzare il consenso. Nel tempo, questo fine intermedio quanto necessario è stato perseguito con quella che oggi si definisce la comunicazione istituzionale, ma anche con l’educazione. Nel tempo più recente con l’ideologia. Ecco stagliarsi la figura del grande inquisitore. “Il grande inquisitore – dice Zagrebelsky – è il grande rassicuratore, pieno di benevolenza per tutti. Per questo, la sua morale è [ovvero: deve
apparire – ndr] una sola, quella stessa del volgo”.
Ma sia ben chiaro, per Zagrebelsky il grande inquisitore della leggenda non è quello della storia del cristianesimo. Quest’ultimo operava, almeno nelle intenzioni, al servizio delle anime ([i]l Pastore era l’Inquisitore”, scrive), “[i]n un tempo in cui la libertà di coscienza era lontanissima dall’apparire all’orizzonte”, usando e anche abusando della forza, ma al fine della redenzione.
“[l]’inquisitore della leggenda – scrive – è tutt’altra cosa. (…) il suo compito non è correggere e raddrizzare, ma assecondare e accontentare. L’inquisitore è un pianificatore; a suo modo, è uno scienziato sociale. La sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana secondo una qualche dottrina, secondo qualche dogma, secondo qualche morale, ma se la rispetta così com’è, la blandisce, la lascia sfogare”.
Per usare termini sempre più frequenti al giorno d’oggi, sa parlare al ventre del Paese. Per questo i suoi veri nemici non sono coloro che infrangono le leggi, essi fanno parte del gioco; ma coloro che rivendicano orgogliosamente e pervicacemente il valore della libertà e il primato della coscienza, che rifiutano di essere “un popolo di omologati nell’accettazione gradevole della terra così com’è, non un popolo di uomini inquieti nella ricerca di una vita individuale come potrebbe e dovrebbe essere per loro”.
L’obbedienza diviene così “non ragione calcolatrice, ma pulsione spontanea”, non volontà, ma “necessità (…) di sottomissione, per liberarsi dalla massima causa di inquietudine, la libertà”. Zagrebelsky osserva che questo meccanismo è l’opposto del pactum societatis teorizzato nel Sei-Settecento. Mentre quello sanciva la cessione individuale di libertà a favore dello Stato perché la libertà senza regole pregiudica la libertà stessa, e dunque il fine è la difesa della libertà in un quadro ordinato da regole condivise; il grande inquisitore ritiene che l’uomo naturalmente rifugga dalla libertà, e conceda la sua obbedienza a chi sia in grado di liberarlo dal pesante, insostenibile fardello, della libertà. La teoria politica del grande Inquisitore è semplice: “chi toglie agli esseri umani la libertà non agisce contro, ma secondo la natura; è un benefattore, non un malfattore”.
Dunque la posizione del Grande Inquisitore è specularmente opposta a quella descritta da Étienne de La Boétie nel suo trattato Della servitù volontaria del 1576. il servilismo dei potenti in cambio di favori o carriere, l’adulazione e la cortigianeria che assecondano la tirannia, che questi denuncia come perversione della natura umana, sarebbero dunque, in realtà, per il Grande Inquisitore, una inclinazione naturale dell’uomo.
A ben vedere, tuttavia, sono le due facce della stessa medaglia: la paura è il rifiuto della libertà, ma la libertà non può sussistere senza responsabilità. L’esercizio costante della responsabilità, per singoli e comunità, appare come l’unico effettivo antidoto contro i ricorrenti tentativi di anestetizzare la coscienza con promesse messianiche di regimi politici perfetti o di condizioni permanenti di felicità terrena e benessere materiale. L’unico presidio possibile della fragile libertà umana.

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