Riforma elettorale e rappresentanza politica

di Giuseppe Cantarano e Angelo G. Sabatini


Una riflessione sul sistema politico italiano nata negli anni novanta del secolo scorso costituisce uno strumento ancora valido per entrare nel labirinto del presente politico per cogliere la sua malattia ormai endemica e per riuscire a dar forma ad una radiografia dell’impasse di cui vive la classe politica nello sforzo di individuare una via d’uscita dal guato paludoso che ne impedisce il risanamento.

Ed è per questo che gli autori di una prefazione alla raccolta di due convegni tenutisi nel corso del 1992 (1) dedicati alla riforma elettorale la ritengono ancora utile per addentrarsi nella oscura selva del tentativo della politica odierna di vedere approvata una riforma elettorale che, in verità, fa molto discutere.

In questa riproposizione del vecchio testo gli autori pregano il lettore di fare uno sforzo di immaginazione: trasferire il presente nel passato e il passato nel presente, cogliendo così l’attualità di un testo scritto per gli anni novanta, nato su fatti storicamente ben definiti, radici di un andamento evenenziale i cui segni li ritroviamo nel presente non superati ed eliminati e neppure attutiti se non forse incrementati.

Valgano per tutti il fenomeno della corruzione, l’impoverimento della fiducia nei partiti e nella loro funzione di cerniera tra il cittadino, le sue attese, e la gestione del potere e, non ultimo, l’impallidirsi della speranza in momenti significativi di vedere realizzati i diritti decantati e promossi da un faticoso processo di illuminazione teorica della nascita di una società democratica.

Ripercorrere quella ormai vetusta riflessione potrebbe aiutarci a prendere consapevolezza di quanto sia difficile tradurre l’ipotesi di una società, definita in assoluta pienezza intellettuale, nel magma di una realtà vischiosa e repellente quale è molto spesso l’agire politico.


Non occorre molta fantasia o competenza politologica per cogliere il grado di debolezza in cui il sistema politico italiano si dimena. Avvenimenti rilevanti nella vita di partiti e segnali ben percepibili di ingovernabilità, nonché manifestazioni di forte confusione ideologica accompagnata da cadute chiaramente irreversibili nel gretto pragmatismo politico compongono un quadro di incertezza e di smarrimento tale da rappresentare adeguatamente il basso livello di eticità che permea l’intero tessuto sociale e istituzionale del nostro Paese: complici il degrado morale e lo stato confusionale del sistema-partito.

La scenografia costruita dai mass media nella rappresentazione dell’avventura politica dell’Italia degli anni Ottanta dai toni fortemente drammatici ci ha abituati a scene di devastanti momenti critici, intrisi di crisi economica attestata su valori negativi iperbolici, con manifestazioni di puro assistenzialismo al posto di uno Stato sociale efficiente, con una pubblica amministrazione disorganizzata i cui confini svaniscono nel territorio multiplo di criminalità organizzata e di connivenza politica.

Ma ci ha anche proiettati da un anno a questa parte nella più vischiosa regione della corruzione, un male italico operante nel Paese da molto tempo ma coperto dall’omertà delle tante lobbies politiche, industriali e finanziarie nella certezza di godere di una legittimazione tacita derivata da un sistema di potere consolidato nel tempo. Tutto a fronte di una opinione pubblica svegliata dal proprio «sonno dommatico» per ergersi a giudice severo di una classe politica sempre più delegittimata a rappresentare le aspirazioni, i bisogni e i diritti della comunità civile.

In concomitanza con l’evolversi di un sentimento di ostilità verso gli uomini che, operando in nome di interessi personali o di gruppi organizzati, hanno favorito l’immagine di sé quali predatori del bene pubblico e quali razziatori nel pascolo dell’economia di Stato, il cittadino ha sentito l’urgenza di ridefinire il suo ruolo nella società politica attraverso il recupero di un più diretto intervento nella creazione di strumenti istituzionali capaci di restituire alla rappresentanza politica la funzione di autentica mediazione tra interessi del singolo e attuazione del bene comune.

Compiendo un processo tipico delle epoche di crisi etico-politica il cittadino si atteggia a restauratore di una verginità originaria, di una condizione primigenia che nel caso specifico diventa volontà di epurazione di coloro che hanno tradito la fiducia accordata e revisione dei sistemi istituzionali attraverso cui la rappresentanza si esplica. Da qui la crescita di un movimento di protesta che nella volontà politica dei rappresentati si traduce in severa condanna degli uomini e del sistema che li ha generati e protetti. Protesta estesa all’intero corpo politico passato al setaccio di un sentimento rabbioso di tipo fondamentalista; con la condanna indiscriminata di tutto ciò che a vario titolo ha concorso a determinare il degrado della politica. La tentazione di fare di ogni erba un fascio è grande, giustificata dall’urgenza di avere una riparazione sollecita del tradimento che i rappresentanti hanno perpetrato a danno dei rappresentati: ma anche dalla volontà di togliere di mani agli inadempienti gli strumenti di un possibile dannoso ritorno.

Il problema del cittadino che vuole riappropriarsi del mandato tradito e la sua maggiore preoccupazione di non poter uscire dalla situazione di crisi profonda sono rappresentati da una sorta di rito Sacrificale che con il malato si brucino anche le vesti dell’appestato. Fuor di metafora si scorge con evidenza il desiderio, guidato in piazza (e i mass media ne favoriscono l’amplificazione), non solo di togliere gli uomini rei del degrado dall’agone della politica ma di rivedere i mezzi formali e strumentali della creazione di un sistema autentico di rappresentanza.

Il cittadino, in sostanza, sceglie la via della critica radicale alla classe politica attraverso lo smantellamento del sistema materiale che ne ha legittimata la deviazione. Il principio della rappresentanza politica deve produrre i suoi effetti migliori, deve cioè consentire il rispetto della volontà che delega nelle azioni del delegato, attraverso un sistema di elezione che garantisca nello stesso tempo la scelta degli onesti al di qua della mediazione partitica e la governabilità di un Paese che rischia di andare alla deriva. La ricerca di un sistema elettorale adatto a tali scopi si viene a coniugare con la necessità di rimuovere alle radici il male più consistente della vita convulsa degli ultimi anni della Prima Repubblica: la partitocrazia.

La volontà riformatrice che sale con insistenza dall’acceso dibattito politico di questi ultimi tempi, con la creazione della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali e con le esternazioni quotidiane degli stessi politici che ne dovrebbero subire l’azione purificatrice, è la faccia speculare della degenerazione dei partiti.

Le gravi impasses del nostro sistema politico mettono in luce il malessere generalizzato che permea la società politica come quella civile e l’urgenza, avvertita come un pungolo al cambiamento, di rivisitare per intero il meccanismo istituzionale della rappresentanza in un modo tale da compiere un vero e proprio processo di rigenerazione della classe politica. Si accentua il motivo escatologico di una età nuova «purificata» con la voglia di recuperare il messaggio più genuino della democrazia attraverso la cacciata dei «reprobi», dei «mercanti del tempio», dei politici corrotti.

Al di là della tentazione, ben comprensibile e motivata dalla crisi della rappresentanza, di accedere ad una democrazia diretta, gli scontenti dell’attuale sistema esigono una rivisitazione di quel sistema politico rappresentativo che ha presieduto alla nascita e allo sviluppo dell’attuale decadenza morale della politica.

La percezione di questo spirito di cambiamento e di innovazione ha conquistato non solo l’opinione pubblica e i suoi migliori veicoli di manifestazione, i mass media) ma si è imposta in alcuni momenti decisivi) il 10 giugno del 1991, il 5 aprile del 1992 e il 13 dicembre dello stesso anno. Il referendum e le elezioni politiche, prima, e amministrative, dopo, hanno dato ai cittadini l’opportunità di manifestare concretamente la maturazione di una volontà di cambiamento che incidesse fin nel cuore del sistema: nella sua povertà morale.

Ma la percezione, sia pure con ritardi e con diffusa incertezza, ha conquistato quella stessa classe politica contro cui sono rivolti gli strali della protesta e del dissenso. La risposta è unanime: rivedere gli stessi meccanismi della rappresentanza, attraverso l’individuazione di una riforma elettorale a cui viene attribuito un potere salvifico, gli effetti di una sorta di battesimo purificatore. Revisione, allora, delle basi istituzionali della rappresentanza e costruzione di meccanismi, elettorali e funzionali, che assicurino pienamente la giustizia rappresentativa di qualsiasi sistema e contemporaneamente favoriscano la definizione di programmi e coalizioni di governo efficienti e produttivi.

Il problema di restituire alla politica lo spazio che la moderna democrazia le affida e che una classe politica dissennata ha ristretto a pura azione di potere partitocratico, è emerso in questi ultimi tempi con la forza di un’azione rivoluzionaria, non cruenta ma carica di una spinta incisiva. Accade, però, che anche questa rivoluzione conduce con sé la spada per incidere il male dominante. E quella spada sembra identificarsi enfaticamente nella definizione di una nuova legge elettorale che cancelli o corregga quel principio proporzionalistico su cui sembra debba ricadere la responsabilità di molti dei mali che affliggono oggi il Paese.

La riflessione e l’azione riformatrice si muovono pertanto chiaramente nella direzione di una maggiore comprensione della rappresentanza politica allo scopo di raggiungere l’obiettivo che i politologi e l’opinione pubblica indicano ormai a chiare lettere: la riforma elettorale. In questa spinta in avanti nella ricerca di una nuova legge elettorale, la necessità di chiarire la complessità della rappresentanza politica è il primo passo per costruire l’edificio solido di una democrazia rappresentativa adeguata alla complessa realtà del momento.

Quello di rappresentanza politica è un concetto indubbiamente molto complesso. Il suo lessema evoca polivalenze semantiche spesso contraddittorie. Se si ripercorre la genealogia della sua formalizzazione logica e giuridica) da Platone a Carl Schmitt, passando per Tommaso d’Aquino e Hobbes) ci si rende conto che ad esso è estranea, storicamente e teoricamente, una qualsiasi connotazione univoca. Non solo. Ma le polisemie concettuali hanno spesso dato luogo ad equivoci interpretativi tanto clamorosi che la vita delle istituzioni statuali ne ha subito radicali modificazioni. Il caso classico delle tirannie democratiche, o quello moderno delle democrazie plebiscitarie, ne costituiscono solo alcuni tragici esempi.

Innanzi tutto, il concetto di rappresentanza politica allude essenzialmente al fatto che viene a costituirsi una relazione di dipendenza fra colui che esercita il potere e coloro dai quali ha ricevuto il mandato per esercitarlo. Ma già questa prima caratterizzazione concettuale della rappresentanza politica mette in scena un dilemma: senza la legittimazione conferita dal mandato, il potere esercitato diventa mera finzione politica. Insomma, la sfera dell’agire politico trova legittimazione razionale non nella sua intrinseca efficacia, bensì in coloro che conferiscono il mandato per esercitare il potere. In questo caso, pertanto, autentico soggetto del potere non è il rappresentante politico ma coloro che, da lui, sono rappresentati.

All’interno di questo paradigma teorico, la politicità della rappresentanza si estende dai soggetti alle istituzioni. Mediante libere elezioni, l’istituto della rappresentanza assume la forma giuridica e politica della funzione parlamentare. È a questo punto che le istituzioni rappresentative diventano il nuovo soggetto politico di una nazione. Tale caratterizzazione della rappresentanza non può non configurare, pertanto, forme statuali politicamente democratiche.

Colui che rappresenta (colui cioè che agisce in nome di altri) che sta al posto di altri), in quanto dipende dalla volontà popolare che gli ha conferito il mandato, è consapevole che la sua azione è priva di autonomia. Ma la mancanza di autonomia deriva anche dal fatto che la sua azione è costantemente sottoposta al controllo degli elettori. E l’efficacia di questo controllo tenderà a essere tanto maggiore quanto più il numero dei rappresentanti diminuisce, poiché risulta meno faticosa, in definitiva, sia l’individuazione che l’imputazione delle responsabilità. Il concetto di rappresentanza politica è destinato, dunque, a coniugarsi necessariamente e sempre con la democrazia? Solo apparentemente.

Infatti, se si mette in relazione la funzione della rappresentanza politica con le forme, con le procedure, con le modalità, con i meccanismi elettorali mediante cui la volontà popolare si esprime conferendo il suo mandato, il concetto di rappresentanza tende a farsi immediatamente e inevitabilmente molto più problematico. Innanzi tutto, se il mandato è libero e non vincolante, al rappresentante deve essere riconosciuto uno spazio autonomo di iniziativa emancipato da eventuali ingerenze da parte dei rappresentati. Viceversa, il mandato assumerebbe i caratteri vincolanti caratteristici di una democrazia cetuale, dove il rappresentante, privo di autonomia politica, sarebbe manipolato a piacimento da determinate volontà particolari. Ma in questo caso il rappresentante, esaurendo la funzione del mandato nella sua diretta esecutività, diventerebbe paradossalmente inutile. Se gli si assicura, invece, indipendenza, cioè uno spazio autonomo di libertà dove poter esercitare una sua soggettività politica, dove insomma può decidere, lo si svincola dalle determinazioni particolari delle volontà dei singoli elettori e diventa il rappresentante generale della nazione. Anche qui, tuttavia, si configura una situazione paradossale in quanto, per poter esercitare effettivamente la sua funzione della rappresentanza degli interessi generali della nazione, il rappresentante è costretto a svincolarsi e ad acquistare autonomia da coloro da cui ha ricevuto elettoralmente, dunque democraticamente e legalmente, un mandato.

Evidentemente, è il mandato libero e non quello vincolante che caratterizza la funzione della rappresentanza politica nelle democrazie moderne. Insomma, le aporie della rappresentanza non possono non suscitare ineludibili interrogativi anche sui dilemmi delle procedure elettorali mediante cui si esprime la volontà popolare. Prima di tutto, se il concetto di sovranità è inseparabile da quello di popolo, ne consegue che sovrano, in realtà, non può che essere il popolo. Ma se sovrano è il popolo, come può la sovranità alienarsi nella funzione parlamentare? È semplice: perché è nel parlamento che la volontà popolare si manifesta politicamente. Questo vuol dire che è solo nella funzione parlamentare che la rappresentanza diventa generale, dunque politica: insomma, sottratta dalle volontà determinate dei singoli elettori.

Allora, se autentica sovranità è quella della rappresentanza politica degli interessi generali che si attua nella funzione parlamentare, le decisioni dei rappresentanti non possono disporre di autonomia in quanto vengono assunte in nome del soggetto autentico della sovranità politica: il popolo. Così concepita, la rappresentanza politica si ridurrebbe a semplice amministrazione e il personale politico a una corporazione di funzionari. Viceversa, se all’agire del rappresentante politico viene riconosciuta massima autonomia, verrebbe nuovamente sancita la separazione tra governati e governanti e si direbbe peraltro addio allo stato moderno.

Di una cosa, comunque, la teoria è certa: senza rappresentanza non può darsi alcuna politica. Ma se questo è vero, diventa indispensabile, allora, pensare a nuove forme elettorali mediante cui la volontà popolare, nella sua inalienabile sovranità, possa conferire alla funzione della rappresentanza parlamentare un mandato politico che non sia né una mera finzione, né una delega tecnocratica svincolata da ogni controllo. Vi è dunque un nesso stretto tra rappresentanza politica e sistema elettorale. Porre in questione tale nesso, soprattutto oggi in Italia, significa affrontare il dilemma della riforma elettorale. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile rilanciare concretamente e non retoricamente le funzioni della rappresentanza politica, mai come in questo momento, peraltro, pericolosamente vacillante sotto il profilo della legittimità normativa e morale.

Questo è tanto più vero se si tiene conto che dopo il voto del 5 aprile la geografia della rappresentanza nazionale dei partiti tradizionali ha registrato sostanziali mutamenti, non certamente incoraggianti per il rilancio della funzione rappresentante del parlamento. L’eccessiva frammentazione della rappresentanza parlamentare dovuta evidentemente alla legge elettorale eccessivamente proporzionale rischia di delegittimare il concetto stesso di sovranità popolare. Se a questo si accompagna la degenerazione del sistema dei partiti e la deresponsabilizzazione del ceto politico dirigente con il conseguente sfascio dell’amministrazione e delle istituzioni, il passo verso la crisi della democrazia parlamentare è breve. Il referendum che ha introdotto la preferenza unica? Forse ancora è troppo presto per valutare tutti gli effetti che il sistema di elezione a preferenza unica ha prodotto può produrre. Comunque, è un segno.

Tuttavia, quello che oggi occorre, piuttosto che limitate modifiche, è una vera e propria riforma del sistema elettorale. Una riforma che consenta non solo di ridurre la frammentazione parlamentare, ma che sappia anche restituire alla rappresentanza politica il suo giusto ruolo e la sua insostituibile funzione democratica.


NOTA

(1Riforma elettorale e rappresentanza politica, a cura di Giuseppe Cantarano e Antonio Casu, ESI, Napoli 1992, pubblicato dalla Fondazione Giacomo Matteotti nella “Collana di studi e ricerche – Problemi istituzionali”, n. 1.

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