Scienza e fede nella corrispondenza tra Papa Bergoglio ed Eugenio Scalfari

di Giuseppe Brescia


Ha suscitato clamore la corrispondenza tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari a proposito della possibilità di perdono, da parte di Dio, per i non credenti, e, più in generale, del problema dei rapporti tra scienza e fede. Premesso di aver dedicato il recente volume “Il vivente originario”, con Prefazione di Franco Bosio, a Papa Francesco, detto “uomo della dolcezza” (1) in un’ottica diversa di recupero della filosofia idealistica e del finalismo nella natura, mercé il pensiero a molte facce dello Schelling, mi preme sottolineare alcuni aspetti di non poco momento che vengono inevitabilmente alla luce nell’ambito di una più ampia considerazione ermeneutica del complesso problema. E sono: la questione del “perdono”; la dimostrabilità dell’esistenza di Dio; il corretto ambito predicativo della verità “nella relazione”; il rapporto trascendenza – immanenza; il valore e il significato della “coscienza”. Intanto, lo Scalfari solleva la questione del “perdono” da parte divina per il non credente; ma si riafferma non credente. Dunque, se non c’è Dio, non si postula la sua esistenza; né l’attributo speciale del suo “perdono”. Poi, lo stesso scrittore esalta come proprio punto d’onore la definizione, raccolta da Papa Bergoglio, della verità come “verità di relazione”, contrapponendola alla netta critica del “relativismo” condotta da Benedetto XVI in molti luoghi ed encicliche. Ora, sia consentito osservare che la definizione della “verità nella relazione” non significa né implica una svalutazione dello statuto assiologico della verità, stravolta per indulgenza al “relativismo”. L’aspetto categoriale, teoretico, trascendentale della verità non cangia, anche se ora l’accento sembra battere, piuttosto, sul momento della relazione: si tratta di una chiave di volta fondamentale. Oltre gli aspetti dottrinari su cui non siamo chiamati ad entrare, si tratta del “non cangiamento dei principi costitutivi”, di cui parla Kant e dopo di lui il Croce della maturità. Ogni giudizio storico è copula di soggetto e predicato, di un dato empirico e di una categoria (“Socrate è un uomo”; “La Cappella Sistina è un’opera d’arte”; “La libertà è principio esplicativo e fine della storia”, e così via). Né sarebbe possibile conoscere il mondo senza formulare giudizi, dunque operare sintesi di soggetti e predicati. La stessa teoria della relatività ristretta e generale einsteiniana (1905-1917) non va confusa né fraintesa con il mero “relativismo”, dal momento che il rapporto tra due sistemi di osservazione del fenomeno (treno in viaggio e banchina della stazione), per essere calcolato, presuppone una costante che non cangia, la costante della velocità della luce, in ogni punto dell’universo. Nelle pagine autobiografiche, lo stesso Einstein diceva che “La scienza senza religione è zoppa, la religione senza scienza è cieca”, intendendo sottolineare la visione del tutto, dell’“accadimento” totale, che è impegnata dalla ricerca scientifica (2). D’altra parte, Scalfari che si richiama alle dottrine di “Giustizia e Libertà” e del Partito d’Azione dovrebbe rammentare la posizione di Carlo Antoni, massimo teorico del liberalismo come “libertà indivisibile”, assertore dell’identità A = a e critico del relativismo proprio del cattivo storicismo (insieme con Carlo Ludovico Ragghianti, Leo Valiani, Aldo Garosci, i Rosselli e tant’altri).

Altro punto della esegesi scalfariana è, ancora, l’indimostrabilità della esistenza di Dio, per via razionale. Ciò che osiamo sommessamente chiosare di bel nuovo, in proposito, è che certo la posizione delle famose cinque vie di San Tommaso (per certi versi riconducibili a quattro) (3), che risultare inappagante o insufficiente nella storia del pensiero moderno e contemporaneo, con tutto il carico di neo-aristotelismo malinteso, di scolastica e neoscolastica che arriva in parte sino a Padre Gemelli o Carmelo Ottaviano. E risulta inappagante, tale posizione, soprattutto per l’altra linea, quella – per dir così – “pascaliana” che procede dalla “scommessa” tra finito e infinito (“le Pari”) e le ragioni del “Cuore”, sino al salto nella fede di Kierkegaard (“Aut Aut”) e che trova oggi in Italia un sostenitore nel pensiero cattolico liberale di Dario Antiseri. Pure, non va espunta una terza via, la posizione dedotta implacabilmente dall’orologiaio di Koenigsberg, Immanuel Kant, nella “Dialettica trascendentale” della sua “Critica della ragion pura” (1781), e prima ancora nello scritto precritico “L’unico argomento possibile per la prova dell’esistenza di Dio”, là dove si dimostra – con la dialettica intesa come “smascheramento” di false antinomie, e con la meraviglia dell’universo – come la creazione del mondo presupponga un elemento statistico così alto da impegnare l’intervento divino (1763) (4). La prova fisico-teologica (dice Kant) “merita di essere ricordata con rispetto. È la più antica, la più chiara, la più adatta al senso comune”. E prima ancora, nello scritto precritico, al paragrafo “Veduta d’insieme dell’universo”, a partire dall’esempio della Via Lattea, aveva dedotto che il sistema solare, con quelli delle altre stelle, “costituiscono un sistema cosmico, che è ordinato in grande con le stesse leggi, con cui in piccolo è ordinato il nostro mondo planetario”. Questa linea è nettamente ripresa, tra l’altro, nel dialogo tra Karl Popper e il Nobel per la Medicina John Eccles, L’io e il suo cervello. “La scienza consegue grandi successi nel suo limitato ambito di problemi, ma i grandi problemi, il ‘misterium tremendum’, dell’esistenza di tutto quello che conosciamo, non si lasciano spiegare con nessun mezzo scientifico” (5). Recentemente alcuni epistemologi, studiosi della “Vita”, come Edoardo Boncinelli, che sembravano fino allora averla espunta o non del tutto considerata, l’hanno riospitata almeno in parte, riguadagnando la menzione filosofica di Karl Popper. Si vuol dire, cioè, che trattasi di questioni dottrinali e filosofiche assai complesse e delicate, tali da non poter esser trattate alla lesta e magari con pose “pontificali” del giorno (scherzosamente, dissi altra volta: a “filosofia minima”, corrispondono “pontefici minimi”). Ora, chioserei la provocazione teologica scalfariana: “Che cosa accadrà quando non ci sarà più l’uomo sulla terra?” (provocazione, forse, da “papa laico”, un poco il “terzo” pontefice attuale?); ‘pro-vocazione’ cui Papa Bergoglio ha risposto: “Allora, tutta la luce sarà in tutti”. Donde ancora Scalfari, a “Otto e mezzo” del 13 settembre 2013 su “La 7”, trae la legittimazione – a suo dire – della prospettiva immanentistica, della piena e totale “immanenza”. Ma non si avvede, dato e non concesso che il caso limite prospettato (ossia, la totale scomparsa dell’uomo sulla terra) possa realizzarsi, e dunque restando negli stessi presupposti del suo ragionamento, che in quel caso così disegnato, o meglio fantasticato e vagheggiato, non si potrebbe più nemmeno parlare di “immanenza” o “trascendenza”, di assoluta “immanenza” (di tutta la luce in tutti gli esseri viventi sopravvissuti, sarebbe da dirsi) in contrapposizione alla assoluta “trascendenza” (come Scalfari vorrebbe), ma semmai di immanenza e trascendenza insieme, cioè di ‘immanenza trascendente’ e ‘trascendenza immanente’. Ma ciò ci porterebbe nel campo dei problemi insolubili, perché mal posti, avrebbe detto Croce nel 1917, con il saggio “Sulla filosofia teologizzante e le sue sopravvivenze”, posto in Appendice ai Nuovi saggi di estetica.

L’ultimo punto riguarda il problema della “coscienza”. “Premesso che la misericordia di Dio non ha limiti – argomenta Papa Francesco – se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza”. Affermazioni che da un lato vengono elogiate per la importanza “mondiale” dagli editori della lettera dell’11 settembre 2013; dall’altro (sia sempre detto con il massimo riguardo) non hanno mancato di suscitar rilievi per la prospettiva fenomenologica e psicologica che sembrano a tratti autorizzare. Certo, il primato della “coscienza” è calzante (pur con il complemento ontologico) in un filosofo come l’italiano Pantaleo Carabellese; in un fenomenologo come Edmund Husserl o Max Scheler; in genere, per i vari e pur diversi testimoni della “filosofia dei valori”, in ambito italiano ed europeo (6). Ma la “coscienza” deve pur sempre appellarsi a un “valore”, a un momento “categoriale”, pena la riduzione a una forma di mero subiettivismo. Questo è il punto, da qualche lettore (7) rilevato; da qualche altro sanato, richiamando ad es. i capitoli 1786 e 1783 del catechismo cattolico, là dove si legge che “la coscienza deve essere ben formata per essere retta e veritiera” (8). Ma (sia detto solo in sede storica, cioè di giudizio storico, non già dottrinale, come si ripete per evitare eventuali invadenze di campo) la coscienza stessa “deve essere ben formata”, appunto; altrimenti, anche il terrorista o fondamentalista islamico (a suo dire, e dal suo proprio punto di vista, di fanatismo totalitario) potrebbe appellarsi alla propria “coscienza”. Che è con tutta evidenza un caso limite, introdotto tuttavia per evidenziare lo scarto tra il mero piano subiettivo o esistenziale e il piano assiologico, di valori categorie e princìpi.


NOTE

(1) Edizioni Albatros, Milano 2013

(2) Cfr., tra l’altro, Michele MARSONET, in Legno Storto del 15 settembre 2013

(3) Cfr. la mia Teoria della Tetrade, Guglielmi, Andria 2002

(4) Cfr. Scritti precritici, a cura di Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Bari 1953

(5) 3 voll.: Armando Editore, Roma 1975: vol. III, pp. 674-680, discusso nella mia Azione a distanza. Conclusioni, Schena, Fasano 1990, pp. 101-115

(6) Eugenio GARIN, Intellettuali italiani del secolo XIX, Editori Riuniti, Roma 1975

(7) Gianni PARDO, in Legno Storto dell’11 settembre 2013

(8) Vendran GUERRINI, in “Il Giornale” del 18 settembre 2013

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