Una nota sulla critica letteraria

di Elio Pecora

Quale ufficio può svolgere la critica letteraria, quando si spoglia dei confronti e delle classificazione e traversa l’opera di prosa o di poesia, addirittura la abita, la respira! Accresce i sensi e i sentimenti del lettore, li affina, conduce là dove il pensiero s’infittisce, s’attorce, e dove l’emozione scioglie inattesi viluppi. Trae le sue qualità da una mescolanza di attenzione e di affezione, di strumenti affilati e di goduti abbandoni. Accade con Auerbach e con Bloom, con Solmi e con Debenedetti. E con pochi altri, per nostra fortuna vivi e presenti. Non il critico della favola gaddiana, che “spacca il capello in quattro”, ma il musico che rende prossima e viva l’altrui partitura.

Vale per questa vasta raccolta di scritti di Silvio Perrella (Addii, fischi nel buio, cenni, Edizioni Neri Pozza, pp. 383), con saggi che vanno dal 1986 al 2015, introdotta da un epigrafe di Bartolo Cattafi e da un’ampia avvertenza, intinta di malinconia. La raccolta ha un sottotitolo: La generazione dei nostri antenati, dove antenati sono i padri, scomparsi solo da qualche decennio e qualcuno ancora presente e operante. Né si tratta solo di padri, che vi sono madri come Lalla Romano, Natalia Ginzburg, Annamaria Ortese, Elsa Morante. Padri e madri appartengono alle generazioni dei primi decenni del Novecento, sono autori e autrici di prose e di poesie memorabili, hanno posti sicuri nella nostre storie della letteratura. E proprio della letteratura, dei suoi fasti e delle sue risonanze, diffidano gli scrittori chiamati in questi saggi da Perrella. Perché anzitutto la vita, nel suo farsi e disfarsi, li occupa e li attrae, li ammala e li esalta; e gli si consegna come un enorme mucchio di tessere disperse per un mosaico da ricomporre. Tutti, con strutture anche azzardate, con scritture che per velocità e compattezza sono prossime, se non dentro, alla lingua della poesia, tracciano percorsi diversi da chi li ha preceduti e nutriti, alla ricerca di una nuova misura dell’essere e di una più certa salute dello stare. Sono scrittori di un’inquietudine ininterrottamente interrogata e indagata fra sofferenza e ironia.

Proseguendo nella lettura, non solo accade di tornare, stupiti e partecipi, a libri già letti e amati, ma di sentire vivo il bisogno di rileggerli con il più e il tanto che Perrella ci consegna. Da Bilenchi a D’Arzo, da Samonà a Fenoglio, da Chiaromonte a Fortini, da Prisco a Rea. E le acuzie di Garboli, le pagine nascoste di Loria, fino a Parise, a Calvino, a La Capria, gli ultimi tre fra i più presenti e indagati, questi “antenati” si presentano come testimoni vivi e pressanti di una modernità di cui siamo ancora gli sconcertati inquilini.

Le tessiture tenere e spietate di Parise nei Sillabari, le geografie fantastiche ed esatte di Calvino ne Le città invisibili, l’estraneità sofferente della Ortese nel Porto di Toledo, i bagliori di un’impossibile armonia di cui La Capria va ancora cogliendo i riflessi, e i luoghi delle narrazioni, le ragioni che le hanno generate, le spinte segrete che le hanno rese necessarie e durevoli: sono materia di un’indagine densa e acuminata e questa indagine è frutto anzitutto di un amore forte e saldo per la scrittura. Di più, come nelle intenzioni del suo autore, questo libro invita a ripercorrere e a comprendere un mondo che «senza la conoscenza dei suoi scrittori, rischiamo si trasformi in una pagina bianca deserta di segni significativi, una pagina illeggibile e triste».


 

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