Matteotti: la morte di un eroe, la nascita di un mito

di Clemente Borando


Giacomo Matteotti è uno dei politici della storia d’Italia, dall’unità a oggi, il cui nome è fra i più conosciuti. A renderlo popolare è la morte violenta in un momento che segna l’avvento della dittatura fascista. inoltre la volontà di nascondere oltre al cadavere la gravità del fatto contribuisce a fare del delitto Matteotti, dopo la caduta del fascismo, una questione, un argomento centrale di quella che sarà la contrapposizione “ideologica” tra il fascismo e la nuova democrazia. e così non c’è paese o città della Penisola che dopo il 1945 non abbia dedicato una via o una piazza a Giacomo Matteotti. è l’omaggio che l’Italia uscita dall’avventura fascista ha voluto fare a una delle vittime del fascismo. o meglio a colui che può essere indicato come un antifascista della “prima ora”, eliminato dal fascismo quando questo si avviava a diventare regime e già utilizzava gli strumenti repressivi della dittatura per sopprimere avversari scomodi.

La “storia”, siamo nel giugno 1924, si protrae per oltre due mesi, è subito sulla bocca di tutti e il Matteotti che conosciamo adesso viene “costruito” in quei giorni dai giornali (Clemente Borando, Il delitto Matteotti tra verità e silenzi, Senaus, udine 2004). Poi il governo metterà la sordina e il silenziatore per cercare di farla dimenticare. ma la figura di Matteotti non si è persa completamente durante il Ventennio, nonostante la repressione. Il ricordo di Giacomo Matteotti persiste durante la dittatura “come espressione della cultura popolare, sedimento mai completamente cancellato”. Secondo Valentino Zaghi (Valentino Zaghi, Matteotti: la nascita del mito popolare, Relazione al convegno “Giacomo Matteotti: un pensiero che vive”, Rovigo 28 maggio 2004, Accademia dei concordi) “l’immaginario collettivo che elabora il mito del socialista polesano ridisegna i contorni di una memoria avvertita come momento integrante del proprio patrimonio, in una fase in cui altri e differenti valori vengono imposti dal potere dominante. il mito di Matteotti rappresenta quindi lo sbocco finale della fertilità espressiva popolare: coniuga il passato e il futuro, la tradizione e la speranza. Sono i fogli anonimi e il loro testo – un misto di rivendicazioni e di minacce – a trasmettere il rifiuto di integrazione in un ordine diverso da sé, la protesta sociale, il sovversivismo”.

“Tra il 1924 e il 1932 – spiega Zaghi – il conflitto grafico-verbale ingaggiato dalle classi subalterne in nome di Matteotti si mantiene a un livello acutissimo. La polarizzazione, dopo il biennio di emotività iniziale, riguarda proprio il segmento cronologico 1930-1931. Tra il 1934 e il 1936 si assiste a un evidente ridimensionamento: con il lento progredire della congiuntura economica e la fondazione dell’impero decrescono le notizie di ulteriori interventi repressivi. forse perché la meno accentuata attenzione per fenomeni considerati minori, in un momento in cui la polizia è impegnata a perseguire episodi di più alto tasso politico, ne affievolisce la presenza”.

“Dal 1937 fino alla caduta del regime – sottolinea ancora Zaghi – la presenza dei ‘sovversivi’ torna a farsi consistente. Soprattutto dopo il colpo di stato del 25 luglio 1943 la rabbia popolare dà vita a un rifiorire di scritte e di voci. In primo luogo si assiste a un’identificazione simbolica con la figura di Matteotti; identificazione che si snoda su un piano quasi etico, privo di particolari connotazioni di classe e socialiste. dalle carte della polizia risulta consistente ed estesa, permettendo di comprendere come persone appartenenti a strati non proletari possano riconoscersi e alimentare il mito di una figura la cui azione politica non è loro immediatamente diretta. Anche per quanto riguarda i telegrammi di cordoglio intercettati dalla polizia, questo meccanismo risulta evidente. le parole: “martire”, “apostolo”, “sacrificio” sono di gran lunga le più usate per indicare il leader del Partito socialista unitario. Se a queste associamo “martire per l’idea / la libertà o cavaliere della civiltà / dovere / umanità”, il totale raggiunge i due terzi dell’intero gruppo. Soltanto in undici casi su quasi duecento appaiono le parole “compagno” o “socialismo” e solamente in sei telegrammi si fa riferimento al colore rosso (i fiori / il vessillo / il vate). Sorprende maggiormente che a inviare questi testi siano in particolare le sezioni socialiste (unitarie e massimaliste), rappresentanze operaie, comitati di opposizione. Se pensiamo che questa piccola aliquota sia da considerarsi la più “interessante” per l’autorità, tanto da giustificare l’intercettazione e la copiatura, non possiamo fare a meno di porci un doppio quesito: o il linguaggio dei mittenti è limitato da una forma di autocensura, oppure esso cambia davanti all’evento luttuoso; si appiattisce in una dimensione più asettica, diversamente ideologizzata. La seconda spiegazione – sono ancora parole di Zaghi – ci pare la più probante. Per quale motivo, infatti, funzionari e militanti dei partiti socialisti e delle opposizioni che assistono al travaglio ritenuto decisivo del fascismo non dovrebbero marcare ulteriormente il loro dissenso utilizzando un vocabolario più forte, più indicativo di una collocazione e appartenenza? Il depotenziamento semantico riguarda allora la morte in sé, il suo valore regressivo a una sfera prima umana che politica; il rispetto per il dolore innanzitutto privato. contrariamente a quanto sostenuto dai settori fascisti intransigenti, nessuna strumentalizzazione, nessun abuso vengono operati nell’immediato; anzi esiste una sorta di pudore affettivo che impedisce di valutare appieno le implicazioni di ordine pubblico e quindi politico, che questa morte porta con sé”.

In definitiva, conclude Zaghi, “vi è in molte di queste persone, tutte puntualmente arrestate, non tanto una cosciente e autonoma scelta di campo, quanto il riferimento a un mondo di valori che attiene alla sfera profonda dell’umanità, alle sue istanze originarie, ideali. Matteotti per loro non rappresenta l’esponente di un partito o di una classe sociale, ma semplicemente la vittima di un delitto. il suo omicidio è l’esemplificazione di uno scontro in cui facilmente è possibile distinguere il bene dal male, il portatore di valori da chi ha infranto l’ordine naturale, la moralità. Le classi popolari avvertono questo assassinio come la versione laica di quello di cristo e la violazione di norme che non possono essere oltrepassate, neppure nella più violenta delle battaglie politiche. Il “sacrificio” di Matteotti risulta, perciò, una sorta di rito collettivo che tocca le corde più intime, in quanto appare violato non solo un simbolo politico, ma anche un uomo con la sua carica di sentimenti”.

La costruzione del Matteotti eroe, come si diceva, avviene nei giorni che vanno dal 10 giugno 1924, giorno del rapimento-uccisione, al 21 agosto, giorno dei funerali. ci pensano i giornali (nel 1924 in Italia si stampano 132 quotidiani) che sebbene – in due anni di governo Mussolini – abbiano subìto e subiscano la “pressione” del fascismo, sono concordi, salvo eccezioni, nel considerare “grave” il rapimento di Matteotti e “pesanti” le responsabilità. Naturalmente i toni sono diversi a seconda della collocazione politica del singolo foglio. ma cosa percepisce, cosa assorbe l’opinione pubblica in quei giorni?

C’è una logica che muove il percorso narrativo che si esprime con i seguente ragionamento. Hanno ucciso un grande che si è comportato da eroe perché è andato incontro alla morte (al sacrificio) in quanto coerente con le idee che professava. lui è grande in sé e la sua grandezza emerge ancora di più per come lo hanno ridotto. Gravità e brutalità del fatto innalzano ancora di più Matteotti e nel contempo collocano gli autori (persone fisiche, ma anche idee) nella categoria del male. Siamo dunque alla contrapposizione Bene-Male, con Matteotti e le sue idee da una parte ed esecutori e mandanti dall’altra. c’è una “terza persona” che è presente e si fa sentire nella storia ed è il cosiddetto “ambiente” che comprende altre figure come la moglie e la madre del deputato assassinato o la gente e questo “ambiente” viene collocato a fianco e a sostegno della vittima. uno strumento in più che, da come è rappresentato, gioca in favore di Matteotti. Nell’immaginario collettivo quindi emerge una figura che nel contempo è grande, ma vittima, perché viene sopraffatto e ucciso, ma non si corrompe perché coerente e coraggioso rispetto agli aggressori che sono figure negative sotto tutti gli aspetti.

Ma andiamo con ordine. Chi è dunque Matteotti? Nella presentazione di quello che è il personaggio principale, il soggetto-oggetto della storia, complessivamente sono due i “registri” utilizzati: quello etico-morale per costruire l’eroe che simbolicamente deve continuare a vivere; quello della vittima fisica che passa attraverso la descrizione raccapricciante di quanto resta del corpo, della violenza che è stata compiuta su di lui e questo con lo scopo di esaltare il sacrificio, di accentuare la gravità del fatto e di far emergere la brutalità degli aggressori. Sono diversi i giornali che senza mezzi termini parlano di “un uomo intero, tutto di un pezzo, nel quale pensiero e azione si fondevano mirabilmente in una milizia rischiosa. Deve avere avuto la forza d’animo di Cristo. La fede e il disinteresse di un Apostolo”. Matteotti è anche coraggioso. È solo contro 5 aggressori, lo si sottolinea, ma il suo è anche un “supplizio affrontato con eroismo” tanto che si parla – mettendo in bocca agli assassini, in una ipotetica confessione – di “contegno spavaldo di Matteotti mentre lo pugnalavamo, direi eroico. ci ha gridato in faccia fino alla fine: assassini, barbari, vigliacchi. mai debolezza a indicare pietà. Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai. La mia idea non muore. i bambini si glorieranno del loro padre, i lavoratori benediranno il mio cadavere. è morto gridando viva il socialismo”. E ci si rivolge a lui come a una “vittima nobilissima, al puro martire di una fede sentita fino all’olocausto”. “Ha mostrato come ancora si sappia morire per una fede”.

Il corpo del simbolo del bene è massacrato e vilipeso. le descrizioni del ritrovamento del cadavere che vengono fatte sono ricche di particolari. Strazio e raccapriccio sono i registri più usati. Alla Quartarella, nel bosco dove viene riesumato il corpo, il cronista riferisce che: “Qualcuno che vi assiste ci fornisce poi dei particolari veramente raccapriccianti. Il cadavere messo a forza, ripiegato. Particolare orrendo! – una lima conficcata nel petto. È una lima che ha servito a scavare la fossa e che poi per estrema sete di odio gli assassini hanno conficcato nel petto del cadavere, quasi per ammazzarlo una seconda volta prima di coprirlo di terra! Questa notizia fa fremere di orrore tutti i presenti. È mai possibile che la ferocia umana arrivi a questo? Il cadavere è veramente in condizioni pietose. Ma da questo mucchio di ossa quanta luce, quanta vita nello spirito, quale solennità di voti e di promesse”. O ancora, “quelle misere spoglie straziate frantumate dalla ferocia dei sicari appartengono a quel corpo che noi abbiamo ben conosciuto forte e febbrile nella sua attività, all’uomo che si distingueva per la fermezza della sua fede, la vivacità della sua intelligenza e la saldezza della sua dottrina. Vessillifero fu scelto a protomartire. la folla in Italia ha un solo grido, una sola bandiera: viva Matteotti!”.

Con queste premesse gli aggressori non possono avere solo la qualifica di assassini. durante il rapimento quello che hanno fatto diventa: “l’orgia di sangue compiuta nella tragica automobile fu orrenda”. Insomma c’è chi si spinge a dire che “fu barbaramente ucciso da belve umane più che da uomini”. Presi singolarmente i vari Dumini e Volpi sono dipinti come persone poco di buono, delinquenti comuni e via dicendo. Gente che “taglia la corda” e la qualifica di vigliacco spetta al Filippelli, l’uomo che ha noleggiato l’auto del rapimento, il direttore del giornale sede di quella che di fatto è stata la base operativa dell’operazione.

Ma veniamo alla platea, all’ambiente che sta accanto a Matteotti. moglie e madre sono due figure nobili. in un cento senso nella cultura popolare diventano “appendici” di ciò che Matteotti rappresenta. Nel complesso vedova e madre sono due figure distinte, ma complementari, in quello che possiamo definire come l’uso emotivo e “politico” del dolore. Velia Matteotti, la moglie del deputato ucciso, rappresenta il presente e il futuro, nel senso che vive la sofferenza che l’omicidio ha suscitato oggi, mentre consciamente o inconsciamente si preoccupa di cosa questo comporterà, nel senso che ha un atteggiamento “politico”. La vedova chiede giustizia, rivolge un appello al popolo di Roma, è accanto al feretro al momento della massima celebrazione umana e politica quale è il funerale. Insomma frena o accelera il coinvolgimento emotivo del lettore nella vicenda. Anche Isabella Matteotti, la madre, è simbolo della sofferenza per il presente. Il suo ruolo è anche quello di mostrare le radici del deputato assassinato, il passato, che è stato quello di essersi formato in una famiglia che pur benestante sapeva non essere estranea ai bisogni e alle attese di una società contadina povera. un passato, quello di Matteotti presentato attraverso la madre, che è stato anche di sofferenza e che oggi è incarnato da una vecchia madre duramente provata dal dover seppellire il figlio.

Centrale nel comportamento delle due donne è il dolore vissuto e così Velia Matteotti viene presentata come “costernatissima”, mentre “indescrivibile è lo stato d’animo di smarrimento e di dolore”. Quando arriva al cimitero di Riano “è in preda a vivissima commozione, cammina a passi incerti e trattenendo a stento le lacrime. Inginocchiata si raccoglie impietrita nel suo intenso dolore. Appare però di una forza d’animo eccezionale e nel suo immenso dolore sono rare le crisi di pianto”. È “donna prodigiosa che la terribile sciagura non ha piegato, si mostra di una energia sorprendente”. Tutti comportamenti che suscitano comprensione e condivisione.

Rispetto e tenerezza è ciò che anima la madre. un cronista quando parla di lei utilizza il discorso diretto che ha il senso della familiarità, dell’amicizia tra il giornale e l’interlocutore, che arriva allo sfogo, alla confessione. “Mi trovo alla presenza della vecchia madre – racconta. Rimango interdetto per un attimo e non so se stringere al cuore la sua mano asciutta ed energica che serra dolorosamente la mia. Gli occhi non hanno lacrime. All’orecchio mi dice: non posso più neanche piangere. era il terzo, l’ultimo. Stava lontano dalla sua casa da anni, sempre col desiderio di poterla rivedere; ed ora … ora … la sua voce si arrochisce. cerco parole di conforto; no non c’è niente da dire, niente che sia degno di tanto dolore. la buona Vecchia si riprende. la camera ardente che essa proprio essa ha voluto preparare. Poi mi introduce nello studio di lui, in questa casa quasi rustica e modesta”. Altri raccontano che “continua a dirigere la casa con indomita lena per quando il colpo atroce le abbia stremato le forze. La sua bocca è piena di amarezza e i suoi occhi piangono da tre mesi ininterrottamente”. Il dolore si fa strazio all’arrivo del feretro nella casa di fratta tanto che ci si chiede: “chi potrà riprodurre con parole l’urlo straziante che uscì dal petto della povera signora la cui figura spettrale sembra la statua del dolore?”.

Le due donne sono il vertice, l’apice di ciò che attraverso la descrizione dell’ambiente (soprattutto la gente) viene espresso come la partecipazione popolare alla tragedia, al dramma e alle responsabilità che questo delitto comporta. Nell’insieme di cose e persone traspare, seppure con intensità minore rispetto alle due donne, il dolore, la solidarietà e la partecipazione. Leggere di una folla silenziosa, che piange, si inginocchia è un invito a stare da quella parte, entrare in quella dimensione. La partecipazione alla tragedia Matteotti ha diverse classificazioni a seconda del significato politico, umano, emotivo che si vuole evidenziare. Ovviamente scelte e intensità dei sentimenti variano da giornale a giornale. comunque, c’è da dire che la partecipazione è riconosciuta e registrata ampiamente. E questo in un quadro che evidenzia come la vicenda Matteotti abbia suscitato scalpore e dolore, troviamo diverse espressioni per quantificare e qualificare questa situazione. La presenza dunque diventa folla, popolo, proletariato, massa, oppure un soggetto più “astratto” come opinione pubblica. Nell’arco della vicenda abbiamo tre momenti particolari che privilegiano la presenza pubblica. Nei primi giorni dopo il rapimento, cioè da quando si diffondono le prime notizie, al ritrovamento dei resti del deputato unitario a Riano e in occasione dei funerali a Fratta Polesine, dove la partecipazione e il coinvolgimento della gente raggiunge la massima intensità. Questa presenza poi viene descritta come una moltitudine, per indicare la quantità, la misura della partecipazione. Inoltre sono presentate “singole figure” che servono a evidenziare ed esaltare aspetti particolari di quelli che sono gli “attori del dolore”. Infine i giornali riportano singoli gesti come il piangere, il cadere in ginocchio e il gettare fiori; anche questo serve a descrivere gli aspetti del dolore e dell’affetto. È una presenza fatta di contadini, operai, gente semplice e si nota come “mani callose si portano agli occhi per asciugare le lacrime sincere del popolo di Rovigo”. “I contadini si fermano, si scoprono, appoggiano il ginocchio all’aratro”. Ci sono anche “folti gruppi di operai nei loro umili abiti da festa. Un giovanottone dalla faccia larga e abbronzata è preso da una crisi di pianto, tenta di soffocarla nascondendo la faccia sulle braccia appoggiate al cancello

chiuso”. dalle persone ai fiori, per dire che “le corone raggiungono il centinaio. Due file di popolane vestite a gramaglia lasciano cadere fiori sul percorso”. Mentre “la folla si fa largo invadendo come impetuoso torrente l’ampio piazzale che si stende dinnanzi alla chiesa”. Ancora i fiori sono “umili fiori di campo, raccolti in quella campagna squallida e brulla, ma intrecciati con amorosa cura”. i presenti, al passaggio del feretro, “quando si rialzano hanno quasi tutti gli occhi luccicanti per le lacrime che vogliono prorompere e sono a stento trattenute”. Si parla di

“massa di popolo, folla immensa. Sono migliaia e migliaia gli uomini di ogni ceto e di ogni colore politico. L’interminabile corteo attraversa il paese fra due fittissime ali di popolo commosso; da ogni finestra sulla bara vengono gettati fiori. La folla si accalca, da ogni parte si vedono uomini e donne, sui balconi, sui muri di cinta, sugli alberi sono grappoli umani che assistono commossi al passaggio dell’imponente corteo”. C’è la “buona umile gente dei campi e delle officine. I ferrovieri sono muti e tristi. Qualcuno ha gli occhi gonfi, qualcuno versa lacrime”.

Quello che si celebra a Fratta Polesine non deve essere un addio! C’è chi sottolinea o suggerisce che “ognuno piange in Matteotti se stesso, ciò che è nella sua umanità e nella sua italianità di offeso, di compresso, di umiliato. Piangere non serve dove non si infervori un lucido proponimento di redenzione e di liberazione. il rito infatti è una battaglia. Il martire scende alfine al suo riposo, ma l’anima dei suoi concittadini e fratelli si risveglia assetata dal suo stesso sacrificio”. Al funerale “non c’erano simboli o bandiere, ma il proletariato c’era tutto con la sua anima incorrotta e indoma. Un coro di voci rotte dal pianto grida W Matteotti W la libertà, abbasso gli assassini abbasso il governo, ma una voce più energica grida abbasso nessuno, W il socialismo!”. “Chi partecipa sa di compiere un dovere, quello di porgere l’estremo saluto a una vittima della libertà. La folla aumentava di momento in momento”. Siamo davanti a una “impressionante reazione morale della opinione pubblica. La Nazione non si lascia più ricattare. La coscienza pubblica è un tribunale inesorabile. Anche il silenzio diventa una sentenza”.

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